In vacanza senza pagare il pizzo
Viaggiare nella Sicilia che dice di no alla mafia. È l’iniziativa di Addiopizzo Travel, un’associazione che propone soggiorni turistici in alberghi e ristoranti che non pagano il pizzo a Cosa Nostra. Di passaggio a Berna, il suo mediatore culturale Ermes Riccobono ci racconta di come un gruppo di giovani si è opposto alla mafia.
Il muro dell’omertà sul pizzo sta crollando. Dopo decenni di silenzio, alcuni imprenditori siciliani hanno deciso di ribellarsi al giogo del racket. E a inizio novembre, i carabinieri della provincia di Palermo hanno fatto scattare le manette ai polsi di 22 boss ed estorsori della mafia a Bagheria. Se la gente inizia a parlare, è anche merito di un gruppo di giovani che vuole dare un volto nuovo alla Sicilia. Per Ermes Riccobono, ragazzo nato a Capaci e membro di Addiopizzo TravelCollegamento esterno, la lotta alla mafia è soprattutto «un obbligo morale».
swissinfo.ch: Cos’è innanzitutto il pizzo e chi lo paga?
Ermes Riccobono: Il pizzo è una richiesta estorsiva, solitamente una somma di denaro, che la mafia chiede ai commercianti per poter esercitare un’attività economica. Oltre al riscontro economico, è un modo per imporre un controllo sociale sul territorio, di affermare la propria autorità.
In dialetto siciliano “u pizzu” indica il becco di un uccello: la metafora è che l’uccello, con il suo grande becco, riesce a soddisfare la sua sete solo se si abbevera in tanti punti diversi. Allo stesso modo, la mafia chiede il pizzo a molti esercenti.
Un pizzo di oltre un miliardo di euro
Il pizzo in Sicilia ha un giro d’affari che supera il miliardo di euro all’anno, secondo uno studio pubblicato nel 2008 dalla Fondazione Rocco Chinnici, dal nome di un magistrato vittima di Cosa Nostra.
La richiesta di pizzo va da un minimo di 32 euro al mese (per una tabaccheria) a un massimo di 27’200 euro (per un supermercato). I commercianti coinvolti in Sicilia sono circa 50’000, il 70% del totale, si legge sul sitoCollegamento esterno della Commissione parlamentare antimafia.
swissinfo.ch: Per un imprenditore, cosa vuol dire pagare il pizzo?
E. R.: Quando apri un ristorante o un negozio, il mafioso di turno si presenta nel tuo locale. Non ti dirà mai “mi devi pagare il pizzo”, ma semplicemente “ti devi mettere in regola”. Poi viene stabilito l’ammontare e la frequenza dei pagamenti. L’importo viene calcolato in base al numero di clienti, al giro d’affari, alla zona. La cifra va dai 50 euro al mese per un venditore di strada ai 1’000-2’000 euro per un gioielliere. Fino al 2004 veniva chiesto capillarmente e secondo le stime era pagato dall’80% dei commercianti di Palermo.
swissinfo.ch: Cosa è successo nel 2004?
E. R.: Sette giovani amici volevano aprire un pub a Palermo. Non essendo pratici, si sono fatti aiutare da un conoscente per allestire un business plan. Leggendolo hanno notato che tra le spese c’era la voce “pizzo”. Si sono resi conto che il pizzo era considerato una tassa dovuta, una normalità.
Questi ragazzi hanno però deciso di reagire. Nell’estate del 2004 si sono inventati la frase “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, l’hanno stampata su degli adesivi e hanno tappezzato tutto il centro di Palermo. Per la città è stato uno choc.
swissinfo.ch: Uno choc? Perché?
E. R.: La parola “pizzo” era tabù in Sicilia. Prevaleva l’omertà. L’ultimo che si era opposto pubblicamente al pizzo, nel 1991, è stato l’imprenditore Libero Grassi, poi ucciso dalla mafia. Grassi è stato lasciato solo: non ha avuto il sostegno né delle istituzioni né della comunità. L’intento di quello che è poi diventato il comitato AddiopizzoCollegamento esterno è di evitare che altri si ritrovino soli contro la mafia.
swissinfo.ch: In che modo?
E. R.: Creando una base di supporto per i commercianti. In un primo tempo è stata creata una rete di consumatori che erano disposti a sostenere chi denunciava il pizzo. Poi abbiamo cercato i commercianti che volevano aderire a questa rete “pizzo-free”.
Lo scopo è di risvegliare le coscienze, di creare un circuito di economia pulita. Soprattutto, vogliamo dare la responsabilità del problema del pizzo, e quindi della mafia, non solo ai commercianti, ma all’intera comunità.
Altri sviluppi
La legge svizzera è insufficiente per lottare contro le mafie?
Su impulso di diverse persone in Italia, che ci chiedevano cosa potevano fare in quanto turisti, nel 2009 è nato Addiopizzo Travel. Proponiamo hotel, ristoranti e trasporti che sono “pizzo-free”. Un modo per mostrare un altro volto della Sicilia, più genuino, al di là degli stereotipi legati al film “Il padrino” e all’immagine del mafioso con la coppola e la lupara. Col tempo la cosa si è allargata e abbiamo iniziato a lavorare anche con le scuole. Vogliamo far capire ai più giovani che è possibile fare qualcosa di attivo contro la mafia.
swissinfo.ch. Come hanno reagito gli imprenditori?
E. R.: Abbiamo iniziato con 300 esercenti, ora sono più di mille. Ricordo che un tempo erano gli imprenditori stessi, ancor prima di lanciare un’attività, ad andare in giro a chiedere a chi dovevano pagare il pizzo. Oggi invece succede il contrario: si rivolgono a noi e chiedono il label “pizzo-free” per lanciare un chiaro messaggio ai loro clienti. È quasi una rivoluzione culturale.
Fuori Palermo, in campagna, è più complicato. Lì la mafia è sempre stata più forte e radicata. Denunciare o schierarsi contro il pizzo è ancora difficile. Nella mia città di Capaci, 11’000 abitanti, gli aderenti a Addiopizzo sono solo due.
swissinfo.ch: Cosa significa ribellarsi alla mafia?
E. R.: Prima voleva dire ritrovarsi da soli, andare incontro a ritorsioni e anche alla morte. La gente pagava il pizzo per paura. Adesso l’imprenditore è invece parte di un gruppo. Da quanto sappiamo, chi ha aderito ad Addiopizzo non ha mai subito ritorsioni. Anzi, dalle intercettazioni della polizia abbiamo scoperto che i mafiosi preferiscono ignorare questi commercianti per timore di essere denunciati. E comunque, sanno che difficilmente riuscirebbero a imporre il pizzo.
swissinfo.ch: Come fate a essere sicuri che i vostri membri sono davvero puliti?
E. R.: Abbiamo il sostegno di autorità e forze dell’ordine. Raccolte le adesioni, trasmettiamo le informazioni alla questura, la quale verifica che queste persone non hanno effettivamente nulla a che fare con la mafia. Ovviamente ci dobbiamo fidare dei controlli. In un paio di casi ci hanno informati che il commerciante in questione era indagato per mafia. Lo abbiamo subito escluso dalla rete.
Infiltrazioni mafiose in Svizzera
I tentacoli della mafia, soprattutto della ‘Ndrangheta calabrese, si estendono anche in Svizzera. Nel suo ultimo rapportoCollegamento esterno, la Polizia federale indica che «tutte le grandi organizzazioni mafiose italiane presentano legami con la Svizzera».
Nel 2014, il Ministero pubblico della Confederazione ha confiscato denaro mafioso «per diversi milioni di franchi», scrive la fedpol.
Nel quadro dell’operazione “Helvetia”, le autorità italiane hanno reso pubblico nell’estate 2014 il filmato di una riunione di una cellula della ‘Ndrangheta tenutasi a Frauenfeld, nella Svizzera orientale. Lo scorso mese di ottobre, due cittadini italiani appartenenti a questa cellula elvetica sono stati condannati dal giudice dell’udienza preliminare di Reggio Calabria a 12 e 14 anni di reclusione.
swissinfo.ch: Per quale motivo la mafia, una delle organizzazioni storicamente più potenti del mondo, dovrebbe indietreggiare di fronte a un gruppo di giovani?
E. R.: In questi ultimi anni la situazione è cambiata. Alcuni boss, come Provenzano, sono stati arrestati. La mafia ha cambiato aspetto e il suo modo di operare. Prima si basava sul controllo sociale e sul pizzo, ora su appalti, politica e attività internazionali.
Credo poi che la mafia ci abbia sottovalutato. Di iniziative sporadiche da parte di giovani ce ne sono state molte in Sicilia. Ma dopo un paio d’anni si spegnevano senza reali conseguenze. Il movimento Addiopizzo esiste invece da oltre dieci anni. Tentiamo di trasmettere una cultura della legalità con iniziative culturali, musica, arte. Sono ambiti in cui la mafia non è molto presente. Abbiamo attaccato la mafia in un contesto in cui non ha voce in capitolo.
swissinfo.ch: Qual è il suo rapporto con la mafia?
E. R.: Come molti altri del gruppo, faccio parte della generazione del ’92, quella che ha vissuto le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Siamo cresciuti con la mafia. Avevo sei anni quando hanno ucciso Falcone: ricordo che abbiamo sentito il botto della bomba anche a casa mia, a due chilometri dal luogo dell’attentato. Per noi, la lotta alla mafia è soprattutto un obbligo morale.
swissinfo.ch: Ci vuole coraggio per opporsi alla mafia?
E. R.: Non direi coraggio, ma volontà di dire di no al pizzo. L’unica cosa che ci hanno riferito le autorità, sulla base di intercettazioni, è che un mafioso aveva espresso la necessità di fare delle cose «scherzose» ad Addiopizzo. Non so cosa volesse dire, ma non è mai successo nulla. Oggi è possibile dire di no al pizzo e alla mafia fondamentalmente senza rischio.
swissinfo.ch: A inizio novembre ha partecipato a incontri culturali a Berna e Zurigo. Perché in Svizzera?
E. R: Negli ultimi due anni il numero di turisti svizzeri in Sicilia è aumentato e quindi ho voluto presentare come si può visitare il nostro paese in un modo diverso. Ma al di là di promuovere la nostra attività di tour operator, voglio trasmettere un messaggio anche in Svizzera, un paese che non è immune dal crimine organizzato. Come diceva Borsellino, «l’importante è parlare di mafia».
Turisti svizzeri in Italia
Nel 2013 la popolazione residente in Svizzera ha effettuato 22,2 milioni di viaggi (con almeno un pernottamento al di fuori del proprio domicilio), secondo le ultime cifre dell’Ufficio federale di statisticaCollegamento esterno. Il 9% dei viaggi ha avuto come destinazione l’Italia.
La Svizzera è il quinto mercato di provenienza dei turisti in Italia. Per un soggiorno nel Bel Paese, gli svizzeri spendono circa 140 euro al giorno, secondo l’agenzia di promozione turistica Visit Italy.
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