Una bolognese, bitte!
La cucina italiana è ormai entrata a pieno titolo negli usi alimentari svizzeri. Una storia di successo iniziata coi minatori italiani che scavarono la galleria ferroviaria del San Gottardo. Per decenni, le abitudini culinarie della Penisola hanno però avuto vita dura nella Confederazione.
Qual è il formaggio più consumato in Svizzera? L’Emmentaler? Acqua, acqua… Il Gruyère? Fuocherello, fuocherello… Il formaggio da raclette? No, acqua, acqua… È la mozzarella, perbacco!
Nel 2009, ogni abitante della Confederazione ne ha consumati in media 2,35 chili. Per riuscire a scalzare dal trono il famoso formaggio fresco italiano, il Gruyère – al secondo posto con 1,8 chili – ha ancora tanta strada da fare. Che gli svizzeri abbiano una certa predilezione per i formaggi italiani è confermato anche dal quarto posto occupato da Grana e Parmigiano (0,66 chili), davanti addirittura ad uno dei prodotti più famosi dei casari elvetici, l’Emmentaler.
La gastronomia italiana ha decisamente conquistato i palati svizzeri. Anche nei menù dei ristoranti che propongono pietanze tipicamente elvetiche, un piatto di spaghetti alla bolognese – il classico ragù, magari rivisto alla Svizzera – non manca mai. Sia nelle città più grandi che nei villaggi di poche centinaia di abitanti, le insegne che offrono specialità tricolori ormai non si contano più. La cucina italiana ha ottenuto a pieno titolo il diritto di cittadinanza svizzera.
Una cittadinanza che è stata però difficile da guadagnare, ricorda la storica dell’Università di Zurigo Sabina Bellofatto. Per decenni la cucina degli italiani in Svizzera è infatti stata considerata da gran parte degli svizzeri primitiva e di odore assai poco gradevole.
Per ritrovare le radici di questa storia di successo bisogna compiere un passo indietro e tornare alla seconda metà del XIX secolo, quando coi minatori italiani che lavorano lungo la linea del San Gottardo arriva anche la loro cucina, probabilmente composta più che altro da «polenta, pane ammuffito e pancetta rancida», come sottolineato da Carlo Bernasconi in un saggio dedicato alla gastronomia italiana nel volume «Gli italiani in Svizzera: un secolo di emigrazione». Con l’apertura della nuova linea ferroviaria, la comunità d’italiani in Svizzera comincia a crescere e con essa l’importazione di prodotti alimentari dall’Italia.
Alcuni immigrati iniziano a specializzarsi nella vendita di generi alimentari e vini italiani. I primi ristoranti aprono i battenti all’inizio del XX secolo, come il Cooperativo di Zurigo, leggendario ritrovo della sinistra, il cui scopo è prima di tutto di offrire pasti a buon mercato agli operai italiani.
Altri sviluppi
Il cibo è anche lo specchio della società
Il boom degli anni ’60
Le abitudini culinarie svizzere cominciano però ad «italianizzarsi» veramente solo a partire dagli anni Sessanta. Diversi fattori contribuiscono al successo della gastronomia “made in Italy”.
«Il boom economico favorì una crescita dei salari, che gettò le basi per un incremento dei consumi, compresi i prodotti italiani. Questa evoluzione fu influenzata dall’American Way of Live. Negli Stati Uniti, infatti, la pasta e la pizza da cibi etnici si erano trasformati in cibi diffusi e riconosciuti in tutta l’America. Dall’America sono poi ritornati in Italia, da dove si sono diffusi in tutta Europa», spiega Sabina Bellofatto.
Con l’avvento del consumismo e il conseguente cambiamento di stile di vita, assume sempre più importanza la ricerca del benessere. «Considerato come il paese nel quale un modo di vivere edonistico era possibile», l’Italia e la sua cucina conoscono un successo folgorante.
La Riviera adriatica italiana diventa una delle principali mete dei turisti elvetici, che una volta rientrati a casa cercano di ritrovare il gusto delle vacanze nei ristoranti italiani. Un gusto dove imperavano però soprattutto pizza e pasta, una «sorta di monocultura gastronomica» stereotipata, afferma Sabina Bellofatto. Una situazione modificatasi solo negli ultimi anni, con il movimento antiglobalizzazione e l’interesse sempre più grande verso i prodotti e le cucine regionali.
Emigrazione
Un altro fattore forse ancor più importante è l’arrivo in massa di emigranti italiani a partire dal secondo dopoguerra. Spesso confinati in abitazioni fatiscenti, con pochi contatti con la popolazione locale, gli italiani non hanno nessuna ragione di adattare le loro abitudini alimentari a quelle del posto.
Vista la forte domanda, sugli scaffali dei negozi delle grandi catene di distribuzione svizzere cominciano a trovare posto molti prodotti italiani. Uno sviluppo confermato anche dalle esportazioni italiane verso la Svizzera, in netto aumento all’inizio degli anni ’70.
Gli svizzeri cominciano pian piano a conoscere prodotti nuovi. «Analizzando le riviste di cucina di quegli anni, ci si rende conto che in Svizzera non si conoscevano ancora verdure tipiche italiane come le melanzane, le zucchine o i peperoni», osserva Sabina Bellofatto.
1970: 526’579
1980: 421’542
1990: 379’734
2000: 321’639
2009: 289’111
Alla fine del 2009, gli italiani erano ancora la comunità straniera più importante in Svizzera, con una percentuale del 17,2%. Al secondo posto figurano i cittadini tedeschi (250’471 persone, 14,9%) e al terzo i portoghesi (205’255, 12,2%).
Il numero di italiani è costantemente diminuito dal 1974 (allora erano 559’184), principalmente per i rientri in patria e le naturalizzazioni.
Mangiatori di gatti?
Come detto, però, la cucina degli italiani in Svizzera non ha avuto vita facile. Gli svizzeri la consideravano primitiva e non l’associavano al loro ideale di cucina italiana. Durante le campagne antistranieri della fine anni ’60, le abitudini culinarie sono spesso state prese in prestito per puntare il dito contro gli italiani, criticati ad esempio per il fatto che «non fossero disposti a rinunciare alle loro abitudini alimentari, accettando di mangiare anche cibi svizzeri nelle mense aziendali».
Inoltre – aggiunge la storica dell’Università di Zurigo – erano assai diffuse le voci secondo cui gli italiani, oltre a mangiare troppi spaghetti e aglio, si cibavano anche di «lumache, uccelli e perfino cigni e gatti».
Chi ha seguito i recenti dibattiti sulla problematica dell’integrazione degli stranieri, potrebbe dirsi che la storia degli anni ‘Schwarzenbach’ in un certo senso si ripete.
«Come storica dico che la storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma le discussioni sull’integrazione degli stranieri si basano in fondo sempre sullo stesso schema. Si cerca sempre di mostrare delle differenze culturali e la cucina in questo senso si adatta bene», osserva Sabina Bellofatto.
«Nello stesso tempo, però, la cucina può avvicinare le culture. Come afferma l’antropologo Franco La Cecla: ‘La cucina è la soglia più accessibile di una cultura. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa soglia’». Un passo che immigrati italiani e svizzeri hanno ormai compiuto da tempo.
A nord delle Alpi la pasta arrivò solo alla fine del XIX secolo, in particolare grazie agli operai italiani che dal 1872 scavarono la galleria ferroviaria del San Gottardo.
Gli abitanti della Svizzera centrale adottarono il nuovo alimento, associandolo però agli usi culinari già in auge, come le patate. Nacquero così i maccheroni dell’alpigiano, o meglio gli Älpler Magronen (tutti i tipi di pasta erano sbrigativamente chiamati maccheroni).
Per preparare questo piatto si fanno cuocere le patate per qualche minuto nell’acqua bollente e poi si aggiungono i maccheroni, cuocendoli «finché il liquido non sarà assorbito quasi del tutto», come recita il ricettario di Betty Bossy, una casalinga immaginaria svizzera creata negli anni ’50 da una redattrice pubblicitaria. Dopodiché si versa della panna sulla pasta e le patate, si aggiunge formaggio, di preferenza sbrinz, e un po’ di noce moscata. Il tutto va poi cotto nel forno per alcuni minuti. Il piatto si gusta accompagnato con cipolle infarinate fritte e purea di mele.
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