Bando dei minareti, opportunità di dialogo
Dopo il bando di nuovi minareti in Svizzera, la ministra svizzera di giustizia ha incontrato rappresentanti di associazioni islamiche per allargare il dialogo. Alcuni osservatori sottolineano i limiti di questo approccio.
Eveline Widmer-Schlumpf ha ricevuto questa settimana sei rappresentanti della Federazione di organizzazioni islamiche svizzere (FOIS), del Coordinamento di organizzazioni islamiche della Svizzera e la Fondation de l’entre-connaissance (Fondazione della mutua conoscenza), creata dall’ex portavoce della moschea di Ginevra Hafid Ouardiri.
Le parti si erano già incontrate il 30 settembre, prima della votazione federale del 29 novembre che ha sancito il bando dei minareti. In passato ce n’erano già stati altri. Questi incontri, infatti, erano stati promossi dal predecessore della Widmer-Schlumpf, l’allora consigliere federale Christoph Blocher.
Nel corso dei nuovi colloqui, la ministra elvetica “ha sottolineato che, pur limitando la libertà di manifestare all’esterno la fede musulmana con l’edificazione di minareti, la decisione popolare non intacca la libertà di professare e praticare la religione islamica”, ha comunicato il Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP).
Pur riconoscendo che il risultato del voto è “l’espressione di problemi”, Eveline Widmer-Schlumpf vede in questa decisione “l’opportunità di discutere la questione in maniera approfondita”.
La necessità di avere interlocutori
Secondo Stéphane Lathion, presidente del Gruppo di ricerca sull’islam in Svizzera (GRIS), l’aspetto positivo degli incontri è che “il governo mostra così l’interesse e la volontà di capire meglio le comunità musulmane nella Confederazione. Ma non si dovrebbe dare a queste associazioni un potere rappresentativo che non hanno”.
“Il governo, che non ha grandi conoscenze sull’islam, tende a considerarli come i rappresentanti perché ha bisogno di interlocutori”, rincara il politologo Ahmed Benani, che da anni si occupa attivamente delle questioni di integrazione e di dialogo culturale e politico fra comunità. “In Svizzera la comunità musulmana in quanto tale non esiste. Coloro che parlano a suo nome sono un’infima minoranza”, sostiene il vodese di origine marocchina.
Il ricercatore ammette comunque che gli incontri con la ministra di giustizia hanno una certa utilità. “In assenza di una struttura gerarchica e di un clero che non esiste nell’islam, in Svizzera sono questi tipi di associazioni e federazioni che organizzano il culto musulmano”, spiega.
Di fatto, però, la Federazione di organizzazioni islamiche svizzere è presente nella maggior parte dei cantoni e collabora con circa 150 centri islamici distribuiti nella Confederazione, replica il suo presidente Hisham Maizar.
Stéphane Lathion obietta che “c’è il rischio di rafforzare le organizzazioni religiose, dato che ci sono comunità musulmane che non hanno la religione come priorità. Berna dovrebbe dunque evitare una legittimazione di certe associazioni a scapito di altre. È essenziale separare quel che riguarda il culto musulmano dal resto (cultura, socialità e altro)”.
Una religione, tante culture
Il presidente del GRIS rileva che “la grande maggioranza dei musulmani in Svizzera non va alla moschea e non si riconosce nelle organizzazioni esistenti. I responsabili di associazioni faticano ad ammettere che molti loro correligionari hanno un rapporto distante con l’islam”, sostiene Lathion.
“Non si deve dimenticare che la maggioranza dei musulmani in Svizzera proviene dall’Europa, ossia dai Balcani”, osserva dal canto suo Ahmed Benani. Ciò significa che hanno un bagaglio storico, politico e culturale molto diverso dei musulmani provenienti da paesi arabi che sono il più sovente alla testa delle associazioni islamiche in Svizzera.
La Commissione federale della migrazione dà l’esempio: il prossimo 23 gennaio organizzerà un incontro con rappresentanti di comunità musulmane su base civile, dice Lathion.
Uguaglianza religiosa davanti allo Stato
Per un dialogo che coinvolga veramente tutti i musulmani nella Confederazione, “è urgente riconoscere l’islam come culto di utilità pubblica. Vaud lo ha fatto con il giudaismo tramite la nuova Costituzione cantonale. Bisogna ispirarsi a questo esempio, unico in Svizzera”, suggerisce Benani.
Questa parità religiosa consentirebbe di “superare il problema della discriminazione posto dal bando dei minareti”, prosegue il politologo. Tale riconoscimento “permetterebbe di separare la questione religiosa dalle questioni politiche e ideologiche e contribuirebbe a tagliare l’erba sotto i piedi degli agitatori di ogni tendenza, come pure di tutti coloro che faranno discorsi improntati al vittimismo, dopo il voto sui minareti”.
Occorre cassare l’articolo costituzionale sui minareti dinanzi alla Corte europea dei diritti umani? Stéphane Lathion ha qualche dubbio. “Ma siamo ancora in situazione di emergenza. Come ha detto una personalità musulmana della Svizzera, dopo il voto, c’è un’enorme pressione della base, in particolare fra i giovani. Occorreva agire”.
In ogni caso i lavori del cantiere aperto dal voto sui minareti saranno lunghi. Nella struttura federalista elvetica, “l’opera dovrà essere compiuta essenzialmente a livello comunale e cantonale”, prevede il ricercatore.
Frédéric Burnand, Ginevra, swissinfo.ch
(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)
In Svizzera nel 2000, anno dell’ultimo censimento, c’erano circa 311mila musulmani. Attualmente si calcola che ve ne siano fra i 350mila e i 400mila
In tutta la Confederazione ci sono quattro minareti. Il primo fu costruito a Zurigo nel 1963, il secondo a Ginevra nel 1978, il terzo a Winterthur nel 2005 e il quarto a Wangen (canton Soletta) nel 2009. Nessuno di essi è utilizzato per chiamare i fedeli alla preghiera.
Il numero dei centri culturali e luoghi di preghiera islamici sono stimati fra i 130 e i 160. La maggior parte è situata in appartamenti o in edifici industriali senza segni di riconoscimento esterni.
Il 29 novembre 2009 popolo e cantoni hanno approvato una modifica costituzionale che sancisce il divieto di costruire nuovi minareti in Svizzera. Il testo è stato accettato dal 57,5% dei votanti. Solo in quattro cantoni (Basilea Città, Ginevra, Vaud e Neuchâtel) è stato respinto.
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