Amnesty International: un appello ai nuovi governi arabi
In Tunisia ed Egitto i nuovi governi dovranno vegliare scrupolosamente sul rispetto dei diritti umani, calpestati dai loro predecessori. È quanto chiede Manon Schick, direttrice della sezione svizzera di Amnesty International.
Nel suo 50esimo anniversario, Amnesty International si trova confrontata con la «primavera araba», simbolo di speranza per una parte del mondo finora poco attenta al rispetto dei diritti umani. Ma le rivoluzioni non sono prive di contraddizioni. E un pizzico di gelsomino non basta a fare una primavera mondiale
swissinfo.ch: La Tunisia e l’Egitto sono reduci da due rivoluzioni relativamente pacifiche. Pensa che nei due paesi ci sarà un maggior rispetto dei diritti umani?
Manon Schick: Nei due paesi, i diritti dell’uomo partono da zero. Quindi non possono che esserci dei progressi, qualsiasi sia la coalizione che governerà. Purché si tratti di un regime democratico, naturalmente. Amnesty ha preso contatto con tutti i partiti politici e ha inviato loro un’«agenda per il cambiamento» (agenda for change), incentrata sul rispetto dei diritti umani.
Purtroppo constatiamo già ora che in Egitto nessuna donna fa parte del comitato chiamato a redigere la nuova costituzione. E questo nonostante le centinaia migliaia di donne scese in strada per chiedere un cambiamento di regime e l’alto livello di educazione delle donne egiziane, che non chiedono altro che di far parte di queste istanze.
C’è dunque un problema e penso che alle ONG spetti il compito di fare pressione. Ma anche il governo svizzero, che ha concesso dei finanziamenti all’Egitto, deve esigere il rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza tra i sessi.
swissinfo.ch: Si parla di massacri in Libia. Amnesty ha il modo di verificare queste accuse?
M.S.: In un conflitto del genere, che si trasforma in guerra civile, ci sono sempre violazioni dei diritti umani e le informazioni sono spesso manipolate, da entrambe le parti.
Il delegato di Amnesty nell’est della Libia ha visto cadaveri con le mani legate dietro la schiena e un proiettile in testa. Le autorità fedeli a Gheddafi ne avevano parlato come di persone uccise durante i combattimenti o mentre stavano fuggendo, ma evidentemente si è trattato di un’esecuzione.
È nel nostro interesse stabilire la verità dei fatti. E anche di chiedere alle Nazioni unite di farlo. Questo perché un giorno i responsabili siano chiamati a rispondere dei loro atti. Non solo le truppe fedeli a Gheddafi, ma anche gli insorti.
Speriamo che la minaccia di essere tradotti in tribunale serva da dissuasivo e fermi la mano di chi oggi potrebbe compiere dei massacri. Purtroppo sappiamo che minacce del genere non impressionano affatto il colonnello Gheddafi
swissinfo.ch: In Libia e in Costa d’Avorio le Nazioni unite e la comunità internazionale si sono impegnate rapidamente a proteggere la popolazione. Cosa pensa Amnesty di questa nuova attitudine?
M.S.: Per noi è una situazione molto complicata. Qualche anno fa Amnesty ha ammesso che in casi particolari può essere opportuno che le Nazioni unite ricorrano alla forza. Dev’essere però l’ultima ratio, perché un intervento militare comporta nuove violazioni dei diritti umani. Inoltre inviare truppe straniere in un paese in conflitto comporta problemi immensi.
Idealmente, bisognerebbe intervenire prima. Si sarebbe potuto evitare da anni di sostenere il regime di Gheddafi e di firmare accordi con lui. L’Europa non avrebbe dovuto accettare i suoi ricatti sul tema dell’immigrazione.
swissinfo.ch: In generale, le sembra che la situazione dei diritti umani sia migliorata rispetto a cinquant’anni fa?
M.S.: Dal punto di vista delle convenzioni internazionali, la situazione dei diritti umani è certamente migliorata. Gli accordi che li definiscono sono stati ratificati da numerosi paesi al mondo. E soprattutto ci sono stati enormi progressi nell’ambito della giustizia internazionale. Oggi esiste una Corte penale internazionale.
Quanto alla situazione sul territorio, credo che se oggi chiedessimo a un abitante della Repubblica democratica del Congo, della Libia o della Birmania se la situazione dei diritti umani è migliorata, risponderebbe di no. E avrebbe ragione, perché continuano a esserci numerose vittime. Dopo il 1961 (anno di fondazione di Amnesty International, NdR) ci sono stati ancora dei genocidi. Si era detto che una cosa del genere non avrebbe più dovuto ripetersi, invece è avvenuto di nuovo.
swissinfo.ch: Alla fin fine, qual è il potere reale di Amnesty International?
M.S.: È nelle mani delle persone che sostengono la nostra organizzazione. Abbiamo 3,2 milioni di simpatizzanti nel mondo, ciò che fa di noi la più grande organizzazione per il rispetto dei diritti umani, con una base davvero militante, pronta a scendere in strada.
Quando si riesce a far liberare, per esempio, un detenuto di un campo di rieducazione in Cina, di solito non è solo merito di Amnesty, ma anche delle organizzazioni locali, della famiglia, degli avvocati. Amnesty fornisce loro la legittimazione, il peso internazionale necessari a ottenere una liberazione.
Detto questo, bisogna anche riconoscere che il potere di Amnesty è davvero minimo. Oggi per esempio, cosa può fare la nostra organizzazione per le persone della Libia o della Costa d’Avorio? Possiamo fare delle inchieste, denunciare delle violazioni. Possiamo cercare di mobilitare delle persone, in modo che ciò che sta avvenendo non cada nell’oblio, ma poi… Il nostro peso è davvero limitato.
Novembre 1960. L’avvocato britannico Peter Benenson apprende dalla stampa che due studenti portoghesi sono stati condannati a sette anni di prigione per aver brindato alla libertà (il Portogallo è allora in piena dittatura Salazar).
Il 28 maggio 1961, Benenson pubblica nel settimanale The Observer un «appello per l’amnistia» in favore dei «prigionieri dimenticati», illustrato dalle fotografie di sette prigionieri d’opinione in Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Grecia, Stati uniti e Angola.
Nel 1963 viene istituito a Londra il segretariato internazionale di Amnesty International.
Il lavoro di Amnesty International è stato onorato da due premi Nobel per la pace. Il primo è assegnato nel 1974 al presidente dell’organizzazione, Sean McBride, al termine di una campagna sfociata nella Conferenza mondiale per l’abolizione della tortura. Il secondo premio è andato nel 1977 all’intera organizzazione. Nel 1978, Amnesty International h ricevuto inoltre il premio per i diritti umani delle Nazioni unite.
Una voce ascoltata. Presente con le sue sezioni in oltre 50 paesi e con membri sparsi in 150 paesi, Amnesty International è riconosciuta come organismo consultivo dalle Nazioni unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Organizzazione degli stati americani. Ha uno statuto d’osservatore anche presso l’Unione africana.
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