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Gibuti: un albergatore svizzero nel calderone

La flotta militare giapponese, ancorata nel porto di Gibuti per proteggere le sue navi mercantili. Olivier Grivat

Dalla sua finestra vede navi da guerra e battelli che battono bandiera di tutti i paesi. L'elvetico Eric Favre osserva da vicino la lotta alla pirateria: l'hotel che dirige a Gibuti è la caserma di lusso delle forze internazionali nel Golfo di Aden.

Il porto di Gibuti – capitale dello Stato omonimo, nell’Africa orientale – si trova in una regione particolarmente calda: in estate, la temperatura supera infatti facilmente i 50 gradi. Il clima è molto caldo anche in senso figurato, in quanto vi stazionano navi da guerra provenienti da tutto il pianeta, venute fin qui per scacciare i pirati somali.

Complessivamente, vi sono quasi una trentina di eserciti mobilitati per proteggere le marine mercantili dei rispettivi paesi. Gli Stati europei sono presenti massicciamente nel quadro della missione militare e diplomatica Eunavfor Atalanta, voluta dall’Unione europea per assicurare la sicurezza del traffico marittimo nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano. Dal canto loro, gli americani stanno costruendo un’enorme base in questo luogo strategico.

Invece di alloggiare in caserma, alcuni soldati e ufficiali hanno scelto di risiedere nelle 250 camere e suite climatizzate dell’hotel Palace della catena Kempinski, diretto dal 53enne elvetico Eric Favre. Ufficiale d’artiglieria nell’esercito svizzero, il vodese – trasferitosi con la moglie Claudia – segue con interesse l’evoluzione della situazione: «Gibuti è una vera e propria guarnigione con migliaia di militari».

Problemi pratici…

In questo albergo a cinque stelle – costruito recentemente, unitamente al nuovo porto commerciale di Gibuti, dall’emiro di Dubai – una cinquantina di espatriati provenienti da diversi paesi dirige ben 350 impiegati di base, segnatamente somali, etiopi e cittadini locali.

Il direttore del grande hotel deve però risolvere parecchi grattacapi: «Abbiamo un vero problema a livello di formazione del personale. A Gibuti, il settore alberghiero d’alta gamma manca di riferimenti. Esiste una piccola scuola alberghiera gestita da tunisini, ma i mezzi scarseggiano», spiega Eric Favre.

Inoltre, aggiunge il dirigente svizzero, «i gibutiani sono un popolo nomade: si tratta di persone molto accoglienti, ma senza la minima nozione di ciò che è il servizio. A titolo di esempio, soltanto due degli otto apprendisti hanno terminato la formazione».

I ritmi sono impegnativi: «Si lavora sei giorni su sette, da 12 a 15 ore al giorno. Il personale di base è impiegato per 48 ore settimanali, ma risulta comunque privilegiato rispetto agli altri gibutiani. Le mance consentono infatti di raddoppiare il salario di 300 dollari mensili, una cifra che consente di mantenere famiglie di 10-15 persone».

…e idrici

«L’altro problema è la manutenzione delle installazioni», aggiunge Favre. A Gibuti, infatti, tutto il materiale viene importato: non esistono stabilimenti industriali o fornitori. In caso di guasti, è dunque necessario acquistare a Dubai la merce necessaria. Tutto ciò può richiedere tempi d’attesa fino a tre mesi.

Per due mesi l’albergo è stato privato di acqua calda, a causa di un bruciatore difettoso. I pezzi di ricambio hanno dovuto essere spediti dall’Inghilterra. Fortunatamente il clima è molto caldo e i militari – che costituiscono il 90% della clientela – non sono ospiti troppo esigenti…

Inoltre, la falda freatica è largamente insufficiente ed è quindi necessario ricorrere ad autocarri cisterna estremamente costosi (50’000 dollari al mese) per garantire l’approvvigionamento idrico.

Senza contare un’ulteriore difficoltà: continuando a pompare, l’acqua della falda ha subito infiltrazioni salate, danneggiando così le installazioni idrauliche dell’albergo. «Per garantire i 300 m3 di cui necessitiamo quotidianamente, l’albergo costruirà un proprio impianto di desalinazione», dice Favre.

Nostalgia del vino

Anche procurarsi prodotti freschi non è semplice. La sabbia di Gibuti non costituisce infatti un terreno particolarmente fertile, e di conseguenza tutto deve essere importato dell’Etiopia. «Per assicurare tre settimane di frutta, verdura e latticini dobbiamo far trasportare la merce da Addis Abeba con autocarri da 20 tonnellate. Il viaggio dura due giorni», spiega il direttore.

«Attualmente l’albergo è confrontato a una penuria di pomodori, ma a volte mancano la arance, oppure il pesce. Non è semplice riuscire a garantire gli standard di qualità in queste condizioni, si tratta di una sfida costante», evidenzia Eric Favre.

Le difficoltà pratiche non sono però le uniche: «A Gibuti si consumano soprattutto liquori e birra, poiché il clima tropicale non è ideale per i vini e i dazi d’importazione sono molto elevati. Ciò che mi manca di più, oltre ai miei figli, sono proprio le bottiglie pregiate lasciate nella mia cantina».

A partire dal mese di dicembre del 2008, l’Unione europea ha avviato una missione militare e diplomatica per ristabilire la sicurezza nel Golfo di Aden e nell’Oceano indiano.

Le navi sono appoggiate da aerei da combattimento. Nella regione sono presenti anche battelli da guerra statunitensi e giapponesi.

Secondo l’ambasciata francese, gli attacchi dei pirati somali sono diventati più rari, ma potrebbero riprendere nel mese di ottobre, quando i venti si saranno placati.

Attualmente, una quindicina di navi mercantili e 250 membri dell’equipaggio sarebbero ancora nelle mani dei banditi. Questi ultimi richiedono solitamente un riscatto pari al 10% del valore del carico, una somma che gli armatori si rifiutano generalmente di pagare.

Nel settembre del 2009 la Svizzera ha deciso di non partecipare alla missione Atalanta: la Camera del popolo ha definitivamente respinto l’entrata in materia sul decreto federale urgente che prevedeva l’invio nella regione di soldati elvetici.

La proposta era stata osteggiata dalla destra nazional-conservatrice, dagli ecologisti e da alcuni deputati socialisti.

Traduzione e adattamento: Andrea Clementi

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