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Guantanamo diventa un caso politico in Svizzera

Nessun poliziotto svizzero si è recato a Guantanamo, ma Berna ha chiesto a Washington di fare degli interrogatori Keystone Archive

La Svizzera, che ufficialmente ritiene il carcere di Guantanamo una violazione delle Convenzioni di Ginevra, può domandare agli USA d'interrogare per lei dei prigionieri?

È quello che ha fatto, scatenando una polemica che non mancherà di movimentare la prossima sessione parlamentare (5-23 marzo 2007).

L’affare che agita il mondo politico svizzero dalla fine di gennaio sarebbe potuto venire alla luce già diversi mesi fa. Il 24 marzo 2006, il deputato Alexander Baumann interpella il governo evocando i tentativi del Ministero pubblico della Confederazione (MPC) volti a ad «accedere ad informazioni provenienti da Guantanamo» attraverso metodi «non sempre compatibili con il diritto svizzero».

L’intervento di Baumann (Unione democratica di centro, destra nazionalconservatrice) è soprattutto un attacco al procuratore generale Valentin Roschacher, il cui operato è criticato da più parti. Roschacher finirà con il rassegnare le dimissioni.

Arrivata il 29 settembre, la risposta del governo all’interpellanza di Baumann ha confermato che la polizia giudiziaria federale aveva richiesto aiuto ai responsabili statunitensi degli interrogatori a Guantanamo.

Berna chiama FBI

Berna ha trasmesso all’FBI – la polizia federale statunitense – una lista di nomi e di fotografie per vedere se alcuni prigionieri potevano dare delle informazioni su dei presunti terroristi islamici detenuti in Svizzera.

Il parlamento, che in settembre era in sessione a Flims, lontano dal contesto abituale di Palazzo federale, sembra non dare importanza alla risposta del governo che non sfugge però alla Commissione della gestione delle camere federali. Nel suo rapporto 2006, la Commissione dedica una pagina alla collaborazione tra MPC e FBI.

Vi si legge che l’iniziativa «ha seguito le vie della cooperazione internazionale in materia di polizia» e che la Commissione, «soddisfatta delle risposte» del Ministero pubblico, «ritiene non sia necessario prendere ulteriori misure».

Lo «scandalo della tortura»

La faccenda però non finisce qui. Il 29 gennaio, il Blick – quotidiano popolare con sede a Zurigo – denuncia lo «scandalo della tortura» dissimulato alla pagina 109 del rapporto.

È quanto basta per far insorgere i paladini dei diritti umani, il mondo politico e i media.

Come può la Svizzera – che non perde occasione per ricordare agli Stati uniti quanto tenga alle Convenzioni di Ginevra – richiedere degli interrogatori a Guantanamo sapendo che chi li conduce si cura ben poco dei diritti umani?

«Così no»

«È assolutamente inaccettabile», tuona Daniel Bolomey, segretario generale della sezione svizzera di Amnesty International. «Da un lato si criticano i metodi usati dagli americani a Guantanamo e dall’altro ci si serve di questo luogo di non diritto per tentare di raccogliere prove contro persone sospettate in Svizzera».

Amnesty non ha nulla in contrario ai tentativi della polizia di smantellare i gruppi terroristi. Ma non ammette che lo si faccia in questo modo. Tanto più che le eventuali prove ottenute a Guantanamo «non potrebbero essere utilizzate nei tribunali svizzeri».

Daniel Bolomey non è il primo a mettere in luce questa contraddizione. Il giorno seguente all’uscita dell’articolo del Blick, il senatore Dick Marti – che tra le altre cose indaga per il Consiglio d’Europa sulle prigioni segrete della CIA – ha ricordato che «nessun tribunale può ammettere prove ottenute da detenuti che non godono di alcuna protezione giuridica».

Il magistrato ne ha approfittato per denunciare una Svizzera che «parla dell’importanza dei diritti umani nei discorsi ufficiali e che contemporaneamente conduce delle azioni che portano alla loro violazione».

La Commissione dovrà spiegare

Più misurato, Jacques-Simon Eggly preferisce parlare di «iato tra la posizione che difendiamo e queste pratiche». Il deputato liberale – assolutamente d’accordo con lo scambio d’informazioni per lottare contro il terrorismo – ritiene che «non sempre il fine giustifica i mezzi».

«Dobbiamo rispettare i nostri valori», aggiunge Eggly. La Svizzera non dovrebbe «mettere il naso a Guantanamo, perché sa che è una zona di non diritto. È stata tra quelli che l’hanno denunciato».

E come Daniel Bolomey, Jacques-Simon Eggly ritiene che la Commissione della gestione «dovrà dare delle spiegazioni». Molti hanno difficoltà a capire perché la Commissione abbia accettato le spiegazioni del Ministero pubblico senza porsi altre domande.

Appuntamento in parlamento

Per la sessione parlamentare che inizia il 5 marzo, dunque, il dibattito si preannuncia acceso. Tanto più che la camera bassa deve ancora discutere la risposta data dal governo ad Alexander Baumann, risposta della quale lo stesso deputato si dice insoddisfatto.

Inoltre, il parlamento dovrà occuparsi anche della ratifica di un nuovo accordo con Washington. I temi? Cooperazione in materia penale e lotta al terrorismo.

Dal canto suo, il socialista Carlo Sommaruga, membro della commissione degli affari giuridici, ha già fatto sapere che chiederà il blocco di questo testo «fino a quando gli Stati uniti non rispetteranno le Convenzioni di Ginevra e la Convenzione contro la tortura».

swissinfo, Marc-André Miserez
(traduzione, Doris Lucini)

L’iniziativa del Ministero pubblico della Confederazione che riguardava Guantanamo s’iscrive nel quadro di un’inchiesta su cinque yemeniti, un somalo e un iracheno attualmente giudicati dal Tribunale federale penale a Lugano.

I sette sono accusati di avere dei «legami con organizzazioni terroriste».

Il 31 gennaio, il ministro di giustizia e polizia Christoph Blocher ha evocato la polemica in corso su Guantanamo in occasione della seduta settimanale del Consiglio federale.

Stando al suo portavoce, il governo ha constatato che gli organi di sorveglianza del Ministero pubblico della Confederazione non hanno rilevato violazioni alla legge.

Il Consiglio federale sottolinea inoltre che proprio in considerazione delle critiche rivolte alle condizioni di detenzione, il MPC non è mai stato in contatto diretto con Guantanamo e ha scelto la procedura che implicava il minor grado di collaborazione.

Da Guantanamo, inoltre, non sarebbero arrivate informazioni utili al MPC.

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