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Un sentimento di gratitudine ancora vivo 50 anni dopo

L'ex-profugo ungherese Georg Zabratzky ha raccolto in un libro numerose testimonianze del 1956 swissinfo.ch

Tra novembre e dicembre 1956 la Svizzera aveva dato asilo a 14'000 esuli ungheresi, fuggiti dopo l'intervento delle truppe sovietiche e la repressione della rivoluzione anti-comunista.

50 anni dopo gli ex-profughi ungheresi nutrono ancora un sentimento di riconoscenza nei confronti della popolazione svizzera che li aveva accolti a braccia aperte.

“A 21 anni lavoravo presso una grande azienda nella città di Miskolc. Un giorno la responsabile del personale viene da me e mi chiede: compagno, il vescovo Zabratzky è suo parente? Sì, rispondo, era mio zio, ma alla mia nascita era già morto da tempo. Non importa, mi dice, lei è licenziato con effetto immediato”.

George Zabratzky, uno dei profughi ungheresi del ’56 che oggi vive a Zurigo, si era così ritrovato praticamente per strada. In Ungheria non vi era una rete sociale per le persone considerate “nemiche della classe operaia”.

“Questa esperienza e ciò che vedevo ogni giorno mi hanno fatto diventare veramente anti-comunista. Il 4 novembre, quando sono stato svegliato dall’arrivo dei carri armati sovietici, ho deciso che era ora di finirla, di lasciare l’Ungheria”.

Indignazione e emozione

Dopo un drammatico viaggio, il 17 novembre George Zabratzky riusciva a raggiungere l’Austria, dove masse di ungheresi in fuga venivano raccolti in campi improvvisati. Pochi giorni dopo poteva salire su uno dei treni che trasportavano in Svizzera 14’000 profughi, ai quali la Confederazione aveva accordato diritto di asilo.

“Il 3 dicembre, al nostro arrivo alla frontiera svizzera, siamo stati accolti alla stazione di Buchs da centinaia di persone, venute per regalarci cioccolata, pane, sigarette. È stata una cosa incredibile”.

La tragedia del popolo ungherese aveva sollevato grande indignazione in Svizzera e soprattutto un’ondata di generosità, rimasta probabilmente ineguagliata da allora. Collette e azioni di solidarietà di ogni genere erano state lanciate un po’ ovunque per aiutare le vittime della repressione comunista e i profughi giunti in Svizzera.

Ringraziamento alla Svizzera

“Prima di arrivare qui, dei parenti mi avevano detto che gli svizzeri hanno un ghiacciaio nel petto, al posto del cuore. Ho incontrato invece ovunque gente pronta ad aiutarmi, che mi ha dato moltissimo in tutti questi anni”.

Grazie anche agli aiuti ricevuti, George Zabratzky ha potuto compiere studi di economia all’Università di San Gallo. Mezzo secolo dopo, il giovane profugo giunto in Svizzera con pochi soldi è un uomo benestante, consulente indipendente in marketing.

Per ringraziare la sua patria di adozione, George Zabratzky ha pubblicato pochi mesi fa un libro, in cui sono raccolte le esperienze di molti testimoni del ’56. “Cinquant’anni dopo mi è sembrato giusto ricordare tutto quello che abbiamo ricevuto da questo paese”.

Come lui, numerosi altri esuli ungheresi hanno tenuto nelle ultime settimane ad esprimere la loro gratitudine con iniziative di ogni tipo: inserzioni sui giornali, cartelloni alle stazioni, targhe commemorative, festeggiamenti alle università, concerti ed esposizioni.

Non solo generosità

Ma come mai la Svizzera ha dato prova di grande generosità nei confronti dei profughi ungheresi, quando poco più di dieci anni prima aveva chiuso le porte a molti rifugiati durante la Seconda guerra mondiale?

“Per le autorità e anche per la popolazione è stata sicuramente un’ottima occasione per riscattarsi. Molte persone si erano rese conto che la politica condotta nei confronti dei rifugiati durante il conflitto mondiale non era stata ineccepibile”, spiega lo storico Urban Stäheli, autore di un libro sull’integrazione degli ungheresi in Svizzera.

“Nel ’56, in piena Guerra fredda, vi sono state anche evidenti motivazioni ideologiche. La condanna dell’invasione sovietica e l’aiuto offerto ai profughi ha permesso tra l’altro alla Confederazione di posizionarsi chiaramente dalla parte occidentale, contro il comunismo”.

L’integrazione degli ungheresi in Svizzera è stata inoltre favorita dal boom economico degli anni ’50, sottolinea lo storico. Praticamente tutti i cantoni avevano bisogno di manodopera e si erano quasi strappati i rifugiati ungheresi.

“Gli svizzeri si sono pure identificati dal profilo culturale con gli ungheresi: un po’ come Guglielmo Tell, questo popolo aveva tentato di opporsi all’autorità e alla supremazia di una potenza straniera”, aggiunge Urban Stäheli.

Amore per la libertà

Nei ricordi di migliaia di profughi ungheresi è rimasto soprattutto lo spirito di solidarietà manifestato dal popolo svizzero.

“La Svizzera è un piccolo paese che ama la libertà, come lo dimostra la sua storia, la democrazia diretta, l’autonomia accordata ai Cantoni. Gli svizzeri sono così saliti sulle barricate 50 anni fa, quando hanno visto come venivano brutalmente represse le aspirazioni di libertà degli ungheresi”, afferma George Zabratzky.

swissinfo, Armando Mombelli

Il 23 ottobre 1956, una manifestazione di studenti a Budapest si trasforma in poche ore in una marcia oceanica di protesta contro il regime comunista, a cui aderiscono oltre centomila persone.

Il 24 ottobre la popolazione scende per le strade in diverse altre città ungheresi per chiedere libertà di stampa e di opinione, libere elezioni e l’indipendenza dall’Unione sovietica.

Il 4 novembre l’intervento delle truppe sovietiche soffoca la rivolta. Durante gli scontri, che durano una decina di giorni, 2’600 ungheresi perdono la vita. Migliaia di persone vengono imprigionate e centinaia sottoposte alla pena capitale.

Tra novembre e dicembre 200’000 ungheresi fuggono verso l’Europa occidentale. La Svizzera accoglie quasi 14’000 profughi: il più alto numero di tutti i paesi, dopo l’Austria, in proporzione alla propria popolazione.

Due libri, pubblicati nel 2006 in lingua tedesca, ricordano la rivoluzione ungherese del 1956 e l’arrivo di 14’000 profughi in Svizzera:
“Flucht in die Schweiz – Ungarische Flüchtlinge in der Schweiz” di George Zabratzky, edizioni Orell Füssli: testimonianze di esuli ungheresi e cittadini svizzeri che hanno vissuto in prima persona gli avvenimenti del 1956.
“Zu Hause, aber nicht daheim” di Urban Stäheli, edizioni Orell Füssli: racconti di 30 famiglie ungheresi giunte nel 1956 in Svizzera.

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