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Giacometti oltre il centenario

Alberto Giacometti: "Il mio desiderio è riprodurre il più esattamente possibile la visione che ho delle cose" Keystone

Nel 2001 l'artista svizzero Alberto Giacometti avrebbe compiuto cent'anni. Come ricordarlo, a fine anniversario?

Eventi per un compleanno

L’anno che sta per concludersi è stato segnato, sul piano culturale, dalle manifestazioni organizzate per ricordare l’anniversario della nascita di Alberto Giacometti (1901-1966).

Una grande mostra antologica, allestita dal Kunsthaus di Zurigo insieme al Museum of Modern Art di New York, ha fatto tappa prima nella città svizzera, tra maggio e settembre, e quindi negli USA, dove rimarrà fino all’8 gennaio prossimo. Un’altra mostra è stata ospitata tra gennaio ed aprile a Parigi, patria d’adozione di Giacometti, nel Centre Pompidou.

I bregagliotti e il loro Alberto

Per l’occasione, molti giornalisti si sono messi sulle tracce di Giacometti, spinti da ragioni di calendario a ricordare il grande scultore e pittore. Inevitabile, in questa ricerca, finire in Bregaglia, valle natale di Alberto Giacometti.

In valle molti si ricordano di lui, l’hanno conosciuto, magari custodiscono nei loro salotti un suo disegno. I bregagliotti sono orgogliosi di Alberto, lo considerano uno dei loro. Ma gli eccessi mediatici del centenario hanno messo a volte a dura prova la loro pazienza.

“Sono già passati cinque team della televisione, adesso basta… Alberto era una persona modesta, non gli piaceva mettersi in mostra, non credo che questo teatro sia rispettoso della sua persona.” Sono parole di un amico dell’artista, stanco di quella che in Bregaglia è stata battezzata “giacomettite”.

Una reazione che invita a riflettere sul senso di un centenario, sul modo con cui ricordare con dignità un personaggio come Giacometti.

Lo sguardo

Alberto Giacometti fu certo uno degli artisti più importanti del XX secolo. Le figure che realizzò nel secondo dopoguerra sono notissime. Basti pensare all'”Uomo che cammina”, finito – povero Alberto! – sulla banconota da cento franchi.

Eppure c’è qualcosa di ambiguo, in questa notorietà. Nel suo lavoro artistico, Giacometti ambiva, come disse una volta ai microfoni della Radio della Svizzera Italiana, a riprodurre “il più esattamente possibile” la visione che aveva delle cose.

Per farlo, necessitava di uno sguardo puro, uno sguardo che sapesse prescindere da ogni stratificazione culturale. “Riprendeva la lezione di Cézanne”, spiega Jean Soldini, storico dell’arte, che diceva: “l’artista deve rendere l’immagine di ciò che vede, dimenticando tutto ciò che è apparso prima di lui”.

Sono noti molti aneddoti della sua vita da cui emerge il suo scrutare il mondo come se lo vedesse per la prima volta. A volte fissava delle persone, degli sconosciuti, fino a farli arrabbiare, ricorda il suo biografo, James Lord.

Sarebbe necessario lo stesso sguardo, oggi, a cent’anni dalla nascita, per avvicinarsi di nuovo all’opera di Giacometti. Uno sguardo che non si faccia irretire dal mito, che non sia impedito dalle troppe incrostazioni, dalle troppe celebrazioni. Che non traduca l'”Uomo che cammina” in una delle tante icone della società dello spettacolo.

Gli strumenti

Intendiamoci: Alberto Giacometti era ben consapevole del valore della sua opera e non coltivava una falsa modestia. Ma sapeva anche che più importante dell’oggetto realizzato era il processo che portava alla sua realizzazione. “Una condizione di attesa febbrile”, per dirlo con le parole di Jean Soldini, “per fissare il momento in cui l’oggetto nella sua interezza si ripresenterà.”

Dipingere, disegnare, scolpire erano per Giacometti questioni esistenziali. “Solo la vita mi interessa”, scrisse un giorno. Il motore della sua attività era il fascino per la realtà circostante, una realtà che lo turbava nei suoi aspetti più comuni, nel suo semplice esistere.

Nulla di più lontano da lui dunque del compiacimento per l’opera compiuta. Celebrarne lo stile o la maniera, celebrarne il mito, sarebbe fare un gran torto ad Alberto Giacometti. Equivarrebbe ad aggiungere qualche chiodo alla sua cassa da morto.

Meglio ricordarne la passione per l’esistenza con le sue stesse parole:

“Il più libero possibile per cercare – con gli strumenti che oggi più mi appartengono – di vedere meglio, di capire meglio ciò che mi circonda, di capire meglio per essere il più libero, il più grosso possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per vivere la mia avventura, per scoprire dei nuovi mondi, per fare la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e di perdere.”

Tutto ciò, è utile ripeterlo, “con gli strumenti che oggi più mi appartengono”.

Andrea Tognina

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