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Guerreiro do Divino Amor, un guerriero svizzero alle porte di Venezia

Guerreiro do Divino Amor a Venezia
Antonie Guerreiro Golay, o Guerreiro do Divino Amor, in una recente visita a Venezia per esaminare gli spazi del Padiglione elvetico. L’artista svizzero-brasiliano si sente straniero ovunque. Casualmente, il prossimo direttore artistico della Biennale di Venezia, Adriano Pedrosa, è anche lui brasiliano. Samuele Cherubini

Architetto di mondi paralleli, l’artista svizzero-brasiliano Guerreiro do Divino Amor (Guerriero del Divino Amore, in portoghese) è stato scelto per rappresentare la Svizzera alla Biennale d’Arte 2024. SWI swissinfo.ch gli ha fatto visita nel suo studio per scoprire che cosa ha in programma per il grande evento del prossimo anno.

Il tema della 60ma edizione della Biennale di Venezia, che si terrà il prossimo anno dal 20 aprile al 24 novembre, si adatta alla perfezione all’artista che occuperà il padiglione elvetico, sebbene la galleria svizzera non sia direttamente collegata alla mostra principale. “Stranieri ovunque – Foreigners EverywhereCollegamento esterno“, il titolo della mostra collettiva curata dal brasiliano Adriano Pedrosa nell’Arsenale veneto, sede principale della Biennale, rispecchia alla perfezione la condizione di Guerreiro do Divino Amor: “Parlo sei lingue, tutte con un qualche tipo di accento. Ovunque io vada, mi prendono per straniero”, spiega l’artista dalla doppia nazionalità svizzera e brasiliana.

Nato a Ginevra e cresciuto tra Parigi, Grenoble, Bruxelles e Rio de Janeiro, Guerreiro do Divino Amor è famoso per le sue installazioni grafiche e audiovisive. Al loro interno, re, regine e sudditi, uomini e donne, sono sempre nudi. L’artista crea mondi paralleli collegati da ponti di attrazione e repulsione, sulla base di immagini utopistiche e distopiche. In questo modo, Guerreiro do Divino Amor intende rappresentare quelle che definisce le sue “allegorie superimmaginarie” o “universi fantascientifici istituzionali”: l’artista in equilibrio precario tra il presente e il futuro di tutte e sei le lingue che parla.

SWI swissinfo.ch ha intervistato Guerreiro do Divino Amor nel suo nuovo studio a Rio de Janeiro. Situato al 29° piano, si affaccia su una delle vie più trafficate della metropoli, Avenida Rio Branco, un’arteria pulsante di vita a ogni ora del giorno e della notte.

Lo studio è ancora vuoto, a eccezione di un letto, un tavolo e una sedia, oltre che di una pianta della specie Dracaena trifasciata, nota anche come sansevieria o “lingua di suocera”.

Dalla finestra si può ammirare una distesa infinita di edifici e montagne, rumori visivi che danno forma all’orizzonte, stimolando la creatività dell’osservatore privilegiato: “Era proprio quel che cercavo. A casa faccio più fatica a lavorare, a concentrarmi. Adesso che ho tanto lavoro, questo spazio è diventato una necessità”, spiega.

È in quello studio di 20 m2 che Guerreiro do Divino Amor preparerà la sua opera per Venezia, non nella vecchia casa dal taglio svizzero nel quartiere di Rio Comprido in cui ha trascorso dieci anni della propria vita.

Al termine della nostra intervista partirà per Roma, a girare un film per la Biennale.

Opera dell artista Guerreiro do Divino Amor
Visuale dell’installazione “The Miracle of Helvetia” (Il miracolo d’Elvezia”), esposta a Ginevra nel 2022. Julien Girard

SWI swissinfo.ch: Che nome è riportato sulla sua carta d’identità?

Guerreiro do Divino Amor: Antonie Guerreiro Golay. Sono figlio di Rosa Guerreiro, brasiliana, e di Eric Golay, svizzero. Il mio nome d’arte è venuto fuori negli anni in cui mio padre ha avuto un’altra storia.

Che storia?

In pratica è partito tutto per scherzo, dalla chiesa di cui mio padre aveva cominciato a frequentare la reverenda. All’epoca lei non aveva ancora il titolo di pastore evangelico, ma era una fervente neopentecostale che passava da una chiesa all’altra. Si era imposta come missione di attirare gente nuova, nuovi credenti; perciò, mi chiese di unirmi a una band di heavy metal [religiosa].

Io ero ancora un adolescente e adoravo l’heavy metal. Lei era originaria di Nilópolis [comune dello Stato di Rio de Janeiro], ma viveva in Svizzera. Era il 1999. E io me ne uscii con il nome di Guerreiro do Divino Amor. Di fatto, Guerreiro [guerriero] era già il mio cognome per parte di madre. Ma all’epoca era solo un gioco. Quando poi ho iniziato a realizzare le mie opere, l’ho adottato come nome d’arte.

Da dove vengono i mondi paralleli che caratterizzano il suo lavoro?

Il mio è un processo molto graduale, fatto di lenti accumuli. Ho iniziato nel 2004, con una marea di informazioni e ricordi, ma anche con una ricerca tendente alla superficie delle cose, ai riferimenti istituzionali, a ciò che ogni luogo vuole mostrare di sé.

I miei video partono sempre da frammenti legati alle istituzioni, almeno in superficie. Nel video sulla Svizzera c’è un discorso della presidente Simonetta [Sommaruga], mentre in altri capitoli spuntano video promozionali di Rio de Janeiro e San Paolo. Si tratta di immagini costruite per attirare turismo e investimenti, esercizi di immaginazione sulla città.

E come ha utilizzato quel materiale?

 Prima l’ho trasformato in una rivista, The Battle of Brussels, immaginando una guerra tra due civiltà, che ho chiamato il «superimpero» e le «supergalassie». The Battle of Brussels è nato da quella allegoria. Nella rivista sulla Svizzera, The Miracle of Helvetia, presento una guerra superimmaginaria tra la Svizzera e l’Amazzonia.

La nuova opera ha una continuità rispetto a The Battle of Brussels, con l’Amazzonia come sede delle supergalassie, cioè qualunque altro modello possibile di civiltà, nel futuro come nel passato. Civiltà parallele che seguono una logica funzionale diversa, per così dire. La Svizzera invece è rappresentata come sede del superimpero, l’apoteosi del capitalismo.

Quindi sarebbe la Svizzera a comandare il nuovo ordine?

In forma superficiale, simbolica, allegorica, la Svizzera è l’incarnazione dell’apoteosi di questo modello, in cui tutto è…

Sterilizzato?

Asettico, sì, ma al tempo stesso perfetto, in completo equilibro. La prova superimmaginaria che è un modello che può funzionare, perché vanta un equilibrio tra natura, cultura, tecnologia, “rusticità” e raffinatezza. Tutto all’interno della struttura immaginaria di un mondo perfetto.

GDA e Andrea Bellini
Guerreiro do Divino Amor e Andrea Bellini, responsabile artistico e curatore della mostra al Padiglione svizzero per la 60ma edizione della Biennale di Venezia. Samuele Cherubini

Come le è arrivata la chiamata della Biennale?

Nel 2022 ho presentato le mie opere al Centre d’Art Contemporain di Ginevra ed è stata la prima volta che sono riuscito a fare una retrospettiva in Svizzera, grazie a[l curatore] Andrea Bellini. È stato allora che ho sviluppato ogni capitolo con un uso specifico di colori, luci e materiali, creando un’installazione per ogni parte dell’Atlante. Grazie a quella mostra sono stato invitato a competere con altri cinque artisti elvetici, per decidere chi si sarebbe occupato del padiglione svizzero alla Biennale di Venezia.

L’evento ha avuto talmente successo che, quando sono stato scelto tra i finalisti per rappresentare la Svizzera, ho chiesto a Bellini di collaborare con me al padiglione veneziano. Ora, con questo grande progetto per la Biennale, ho ancora più tempo e ancora più risorse da sviluppare, portandole addirittura nella terza dimensione, per creare ambienti immersivi che diventano un’estensione dell’universo dei video e delle pubblicazioni.

Come sarà questo nuovo progetto?

Il nuovo progetto è fortemente incentrato sull’architettura del potere, dei colonnati, di Roma… su quei simboli architettonici e su come sono stati usati in varie parti del mondo e in diverse epoche, sempre a suggerire un immaginario di potenza e supremazia. Ultimamente ho lavorato ai costumi per il film: oltre all’architettura, anche la moda ha un suo ruolo nella rappresentazione del potere.

È un’opera con un che di pomposo: aumenta l’autorappresentazione dei singoli Paesi, come si faceva una volta con le Esibizioni universali, giochi geopolitici di un potere basato sulla cultura. In un certo senso è come se la stessa Biennale e i suoi giardini fossero già parte dell’opera, perché ciò che c’è nel Padiglione svizzero crea un collegamento con il resto.

Con il suo lavoro vuole creare una catarsi per la società di destinazione, ovvero le persone che vivono nei posti che sono oggetto delle sue superimmaginazioni?

Fa già tutto parte del discorso. Nel caso dei condomini, per esempio, un giorno sono andato a vedere un progetto di sviluppo immobiliare, fingendo di voler comprare un appartamento, e mi sono portato dietro mia madre. Lo avevano chiamato “Ilha Pura”, isola pura. Il nome la dice già lunga: era il condominio che poi sarebbe diventato Villaggio Olimpico, quello vero, costruito per le Olimpiadi di Rio del 2016. Venditori e venditrici hanno tenuto un discorso estremamente razzista e segregante, pronunciato con la più completa naturalezza, perché in teoria eravamo tutte persone appartenenti alla stessa classe.

Inserire quelle immagini e quei discorsi dalla perfezione artificiale in vendita come collage non fa che amplificarne la vuotezza e la fragilità. Rende le cose più ordinarie assurde, grottesche. A me piace molto quando un’opera viene messa in mostra lì dove è stata concepita, perché il pubblico è in grado di coglierne tutti i riferimenti. Mi piace quando la gente urla nel vedere qualcosa, soprattutto nell’arte, dove è tutto sempre troppo silenzioso.

Una scena di The Miracle of Helvetia
Una scena di “The Miracle of Helvetia” Personal Archive

Ha riscontrato lo stesso tipo di reazioni anche alla mostra di Ginevra?

La gente da quelle parti in genere è più contenuta, ma c’è stato chi ha gridato, chi ha riso e chi ha applaudito. Si sono emozionati tutti molto: si vedeva che ne erano toccati profondamente. Io ero molto commosso. Durante quella mostra, il team dedicato alla formazione ha messo in piedi anche dei workshop per adolescenti, incitandoli a elaborare le proprie superimmaginazioni.

Sono sempre molto contento quando un’opera viene utilizzata in un corso, che sia di sociologia, arte o storia. Dal momento che ogni mio lavoro è un’allegoria della cultura popolare, contenente elementi come icone, storiche o mediatiche, cariche di significato, studenti e studentesse li riconoscono immediatamente. In questo senso, gran parte della mia ispirazione e dei riferimenti che uso viene dal Carnevale brasiliano.

Si potrebbe definire il suo lavoro come una mappatura sociale, politica ed economica?

Sì, è un’opera di cartografia. Il mio primo studio accademico, in architettura, nel 2002, ha riguardato proprio la cartografia come strumento di potere. Era un’opera di analisi storica. Da lì è partita anche l’idea di inserire la cartografia nel mio lavoro. Il progetto si chiamava World Super-Encyclopedia [Superenciclopedia del mondo], i capitoli di un atlante.

E la Biennale ora fa parte del suo atlante personale, giusto?

Costituirà un nuovo capitolo. Stiamo creando una meravigliosa allegoria tra la Svizzera e Roma, con una tecnica diversa. Potrebbero persino esserci dei dipinti. Ma è una sorpresa, non posso rivelare nulla.

GDA davanti al padiglione svizzero
Di fronte al Padiglione Svizzera di Venezia: “L’installazione sarà una sorpresa, per ora non posso rivelare nulla.” Samuele Cherubini

Riesce a separare Guerreiro, il guerriero, da Antonie?

No, sono sempre entrambe le cose. La gente mi chiama in entrambi i modi. Il lavoro che faccio mi ha aiutato moltissimo a mettere insieme tutti i pezzi di me stesso: l’essere cresciuto in tanti contesti diversi, il parlare portoghese a casa, lo studiare in Francia. E poi, mio padre non si identificava granché con la Svizzera.

Nella sua vita da immigrato, è stato più facile integrarsi qui o là?

Parlo sei lingue, tutte con un qualche tipo di accento. Ovunque io vada, mi prendono per uno straniero. Persino qui, dove mi sento a casa. Per molto tempo ho cercato in tutti i modi di integrarmi, ovunque io fossi. Ho sempre vissuto tra culture diverse e contesti sociali in contraddizione tra loro.

In Brasile esistono diverse civiltà parallele. Penso che il mio lavoro scaturisca almeno in parte da questa capacità di provare a integrarmi senza mai riuscirci. Ogni tentativo, però, mi ha insegnato molto. Tanta osservazione, tentativi di imitazione, ripetizione di parole a pappagallo, incorporandone qualcuna. Oggi però non me ne preoccupo più.

> Per farsi un’idea dell’estetica di questo artista, si consiglia di guardare il video Cristalização de Brasília (Cristalisation of Brasilia), girato nella capitale brasiliana nel 2019 (in Portoghese):

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A cura di Eduardo Simantob e  Virginie Mangin/ts

Traduzione: Camilla Pieretti

Eduardo Simantob

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