L’arte, ombra della società
Il contributo svizzero alla Biennale dell'arte di Venezia esplora i territori dell'identità, dell'appartenenza e dell'utopia. Con grande varietà di approcci.
Nella chiesa di San Stae, Pipilotti Rist ammalia gli spettatori con la sua visione del paradiso. Nel padiglione nazionale, quattro artisti dalle radici multiculturali s’interrogano sui rapporti fra arte, società e individui.
Fa fresco, fra gli stucchi barocchi della chiesa di San Stae, lungo il Canal Grande. La penombra dà tregua agli occhi affaticati dal sole estivo. Un cartello chiede di togliersi le scarpe, prima di sdraiarsi su uno dei materassi disposti sul pavimento.
Pipilotti Rist, videoartista di fama, ha immaginato un paradiso terrestre senza peccato, l’ha ambientato nella rigogliosa vegetazione brasiliana, l’ha popolato di due donne, Pepperminta e Amber, e l’ha chiamato «Homo sapiens sapiens», tanto per ricordare che l’uomo è anche donna.
Le immagini proiettate sul soffitto, al di sopra dei quadri e degli stucchi barocchi, sono intriganti, sensuali, psichedeliche. Corpi nudi su sfondo verde, frutti esotici, una musica suadente e onirica. Pipilotti Rist riscopre il senso barocco dello spettacolo e lo traduce in immagini elettroniche, epurandolo dagli echi cupi della Controriforma.
L’artista svizzera offre un’oasi di pace e utopia, in un mondo segnato dalla guerra e dalla povertà. A chi l’accusa di proporre una fuga dal mondo, risponde che la sua arte vuole piuttosto «ampliare gli orizzonti». Certo non graffia, ma gli spettatori apprezzano. La nostalgia del paradiso è un motore della civiltà.
Dall’utopia all’identità
L’atmosfera è completamente diversa nel padiglione svizzero ai Giardini della Biennale, un edificio dall’architettura sobria e lineare realizzato nel 1952 da Bruno Giacometti, il fratello di Alberto. Le opere esposte qui concedono poco allo spettacolo, tengono l’osservatore ad una certa distanza, invitano a riflettere più che a stupirsi e a lasciarsi cullare.
«Il forte contrasto tra la chiesa di San Stae e il padiglione deriva da una scelta consapevole», ammette Stefan Banz, il curatore del contributo svizzero alla Biennale. «Da una parte la gioia per i colori di Pipilotti Rist, dall’altra un’esposizione dai toni piuttosto freddi, che guarda ai contenuti».
Prendendo a tema ispiratore della mostra il concetto di identità, Banz ha invitato a Venezia quattro artisti svizzeri nati o cresciuti al di fuori dei confini nazionali e che riflettono nel loro lavoro la loro appartenenza multipla.
Cinque miliardi di anni dalla fine del mondo
Il più noto fra di loro è Gianni Motti, nato a Sondrio, in Valtellina, che in queste settimane ha fatto molto parlare di sé per la saponetta esposta alla fiera Art di Basilea. Una saponetta che secondo l’artista sarebbe stata prodotta con il grasso estratto al presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi durante una liposuzione in una clinica ticinese.
Nei Giardini della Biennale Motti espone due opere all’esterno del padiglione svizzero: un cartello che dedica il viale a Harald Szeemann, il grande curatore svizzero scomparso di recente, e un orologio digitale, posto sopra l’ingresso del padiglione, che segna il tempo che ci separa dall’esplosione del sole (un fenomeno che secondo gli astronomi potrebbe verificarsi tra circa 5 miliardi di anni).
L’artista è presente a Venezia anche al di fuori degli spazi espositivi elvetici. Le curatrici della Biennale lo hanno invitato a presentare l’«iniziativa Guantanamo», un progetto lanciato insieme ad un altro artista svizzero, Christoph Büchel.
«L’iniziativa propone di trasformare la baia di Guantanamo da base militare in un sito dedicato alla promozione della cultura», scrivono i due artisti, che hanno avviato trattative con il governo cubano per affittare l’area. Una volta diventati locatari, Büchel e Motti dicono di voler avviare «le azioni legali necessarie contro l’occupazione illegale della baia di Guantanamo da parte degli Stati Uniti d’America».
La familiare anonimità del potere
Meno provocatorio, ma forse altrettanto complesso, è il lavoro di un altro artista di origini italiane, Marco Poloni. Poloni espone una serie di fotografie a colori, ordinate come se si trattasse di uno story board, di appunti visivi per la realizzazione di un film.
Le immagini suggeriscono la vicenda di un manager di una multinazionale o di un alto funzionario governativo, che si muove tra cabine d’aereo, limousine nere, alberghi e ristoranti di lusso. Un personaggio dei nostri tempi, familiare e nel contempo misterioso.
«Mi interessa il concetto freudiano di ‘Unheimlichkeit’, di non familiarità», spiega Poloni. «Con queste immagini voglio suggerire un senso di estraneità, di alienazione».
Solo ad un’osservazione più attenta ci si accorge che la persona che appare sulle foto non è sempre la stessa. Poloni fotografa scene reali, in luoghi anonimi ma spesso carichi di significato, come la sede della Enron a Huston o il Pentagono. Poi le combina, in modo da indurre l’osservatore a interrogarsi su quel che sta vedendo. «È lo spettatore che deve costruire il film nella sua testa».
L’identità difficile
Una riflessione più diretta sul tema dell’identità è proposta da Ingrid Wildi, figlia di madre cilena e padre svizzero, nata in Cile ed emigrata in Svizzera con il padre e il fratello all’età di 18 anni. In una toccante intervista video con il fratello, che vive in una casa per persone senza fissa dimora, l’artista propone il ritratto di un uomo segnato da un confronto difficile con la sua identità multipla.
Ciò che colpisce maggiormente nel video è la capacità di Ingrid Wildi di dar rilievo, profondità alla persona intervistata, di farne emergere nel contempo la forte presenza fisica e la fragilità. Un’opera realistica, ancorata nella storia individuale e collettiva, che se si vuole rappresenta un contrappunto ideale all’estetica utopistica di Pipilotti Rist.
Come scrive il critico Philipp Ursprung nel catalogo della mostra, «l’opera di Wildi è una delle poche, all’interno del mondo artistico svizzero, che può essere definita politica, nel senso che articola le condizioni economiche e sociali dei suoi soggetti».
Il corpo e l’ombra
L’ultimo degli artisti ospiti del padiglione svizzero, Sharyar Nashat, sembra essersi ispirato più direttamente al titolo dato da Stefan Banz alla mostra, «Shadows collide with people» (le ombre si scontrano con le persone), dove l’ombra va letta come metafora dell’arte.
Il video realizzato da Nashat è ambientato nel Louvre, nella sala che espone i quadri di Rubens dedicati alla vita di Maria de Medici. Un giovane uomo osserva i dipinti, in silenzio, poi li affronta con un’evoluzione ginnica, mettendosi in equilibrio su una mano sola.
Un linguaggio criptico, che forse rimanda alle riflessioni di Banz: «L’arte non è la società. Però la riflette. Anche l’ombra riflette ciò che la fa nascere. Come l’ombra, anche l’arte è una realtà. Non è che quando gli uomini e le ombre, l’arte e la società si incontrano che possiamo capire i rilievi e le sottigliezze del mondo».
swissinfo, Andrea Tognina, Venezia
La 51esima Biennale dell’arte di Venezia è aperta fino al 6 novembre 2005.
Per la prima volta nei suoi 110 anni di storia, la direzione della Biennale è stata affidata a due donne, le spagnole Maria de Corral e Rosa Martinez.
70 paesi presentano 30 mostre nei padiglioni dei Giardini della Biennale e 40 in sedi del centro storico della città.
Il contributo svizzero alla Biennale è costituito da un’installazione di Pipilotti Rist nella chiesa di San Stae, sul Canal Grande, e da una mostra curata da Stefan Banz nel padiglione svizzero ai Giardini della Biennale.
Gli artisti ospitati nel padiglione sono Gianni Motti, Shahryar Nashat, Marco Poloni e Ingrid Wildi.
Gianni Motti, insieme a Christoph Büchel, è presente anche nella selezione internazionale della Biennale, con l’«Iniziativa Guantanamo».
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