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L’eredità svizzera di un’australiana

Una fotografia di Kit Monighetti (a sinistra) e della figlia Kathleen durante il soggiorno a Biasca. Barb Mullen

All'inizio era una semplice serie di lettere spedite a casa. Ottant'anni più tardi, gli scritti sono stati riuniti in un diario che offre uno sguardo sulla vita nelle Alpi svizzere e sull'atteggiamento degli australiani nei confronti dei migranti elvetici.

Le lettere, consultabili cliccando sul banner a destra, sono state scritte al momento in cui la Grande Depressione aveva iniziato a strangolare l’Europa e il fascismo stava guadagnando sempre più terreno.

La crisi finanziaria negli Stati Uniti e le maggiori restrizioni adottate nelle politiche di immigrazione avevano di fatto arrestato il flusso migratorio verso l’America, in provenienza dall’Europa e dai villaggi montani della Svizzera italiana.

Correva l’anno 1930 e il futuro non poteva essere più incerto. È in questo contesto che una benestante australiana di mezza età, Catherine “”Kit” Monighetti, si imbarcò in direzione dell’Europa. Le sue mete principali erano due paesini del canton Ticino: lì intendeva recuperare l’eredità lasciata dai suoi famigliari.

«Miei cari ragazzi, siamo arrivati sani e salvi a Biasca…», scrive ai suoi due figli al suo arrivo in Ticino.

La data è quella del 5 agosto 1930. Accompagnata dalla figlia Kathleen, Kit inizia il suo viaggio in Inghilterra e Irlanda, prima di recarsi in Svizzera. Oltre a Biasca, paese natale del defunto marito, passa da Cevio, in Valle Maggia, il villaggio in cui è cresciuto suo padre, Alessandro Mattei.

Il lavoro di un anno in una settimana

«Credo che suo padre le abbia parlato della sua splendida infanzia, trascorsa in belle case e tra gente importante», racconta Barb Mullen, una nipote di Kit, dopo aver letto il diario della zia.

Mullen ha trasmesso a swissinfo.ch, per essere pubblicata, la parte del diario dedicata alla Svizzera. Tutte le lettere sono state trascritte con l’intenzione di ricostruire la storia genealogica della sua famiglia. Secondo lei, le lettere e i diari personali racchiudono un enorme valore storico.

Nei i suoi scritti, Kit Monighetti racconta ai figli la vita di tutti i giorni nei villaggi di montagna del 1930. Nelle lettere spiega poi come venivano percepiti in Australia i gruppi di immigrati (tra cui gli svizzeri italiani) dell’epoca.

«Bè, è triste notare il modo di agire assai primitivo in questi piccoli villaggi (…) Potresti fare in una settimana quello che loro fanno in un anno», si legge in una lettera spedita da Biasca.

Scimmie allo zoo

«Sebbene avesse origini svizzere italiane [irlandesi da parte della madre, ndr], era stata influenzata dall’opinione diffusa in Australia secondo cui l’Inghilterra era una sorta di madre patria», spiega Barb Mullen.

«Eravamo una colonia inglese e a decidere erano persone con origini inglesi», ci dice Mullen, aggiungendo che la comunità svizzera italiana era vittima, così come altri gruppi di migranti, di intolleranza e pregiudizi.

Questa constatazione potrebbe aiutare a spiegare il motivo per il quale Kit Monighetti, il cui padre e marito parlavano italiano, non ha mai imparato quella lingua. Un aspetto, quello della diversità linguistica, che affiora regolarmente nelle sue lettere.

«… nemmeno un’anima parlava una parola d’inglese (…) c’era molta gente ed essendo australiani ci sentivamo come scimmie allo zoo… Oggi andiamo a trovare Federico Monighetti, un cugino che è stato in America e che quindi parla un po’ di inglese».

Ostentare la ricchezza

Negli scritti di Monighetti, ritiene Mullen, emerge una certa “insensibilità culturale”. La zia sembrava fiera di essere riuscita ad emergere dalla comunità svizzera italiana in Australia e di aver raggiunto una posizione di tutto rispetto in seno alla società.

Quella dei Monighetti in Australia è effettivamente una storia di successo. Dopo aver gestito un negozio e diversi bar e alberghi nelle città minerarie nei dintorni di Melbourne, la famiglia Monighetti ha aperto degli hotel anche nelle regioni centrali e settentrionali dello stato del Victoria.

«Credo che si sia messa in viaggio per tre ragioni. Una era per ostentare la sua ricchezza. Penso che volesse mostrare di essere una donna colta e raffinata. Credo inoltre che avesse un’idea romantica dell’Europa e che volesse recuperare parte dell’eredità di famiglia», ci racconta Mullen.

Nelle sue lettere, Monighetti ritorna in effetti più volte sui suoi tentativi di mettere le mani sulle proprietà del marito a Biasca. Non esita poi a parlare in modo sprezzante del valore, esiguo, dell’eredità lasciata dal padre a Cevio.

Ad emergere dalle lettere è dunque, soprattutto, la disillusione di un’australiana che sperava di trarre un certo profitto facendo ritorno nella sua terra ancestrale. Non è però riuscita a mettere le mani su un’eredità che, comunque, le spettava.

I grandi flussi migratori dall’Europa all’Australia iniziano verso la metà dell’Ottocento con la scoperta di giacimenti d’oro negli Stati del Victoria e del Nuovo Galles del Sud.

La corsa all’oro coinvolge diverse comunità dell’odierno Ticino, del Grigioni italiano (Poschiavo) e del Nord Italia (Valtellina e Piemonte). L’avventura australiana è vista come una possibilità per sfuggire alla miseria, alla fame e alla crisi economica che attanagliano l’arco alpino e le zone periferiche.

Tra il 1853 e il 1855, circa 2’000 ticinesi salpano alla volta dell’Australia.

Gli emigranti si concentrano attorno alle cittadine di Bendigo, Ballarat e Daylesford/Hepburn (Jim Crow), a nord di Melbourne. La comunità italofona formata da lombardi, piemontesi e svizzeri italiani è tra i principali gruppi di stranieri della regione. Presto ci si rende tuttavia conto che la corsa all’oro sta già tramontando, contrariamente alle promesse delle agenzie di viaggio.

Alcuni ticinesi fanno fortuna e ottengono cariche prestigiose a livello politico, mentre altri rimangono in Australia conducendo una vita modesta e stentata. La maggior parte fa però ritorno a casa a mani vuote e con parecchi debiti da ripagare, oppure riparte alla volta dei giacimenti auriferi e dei ranch della California.

A differenza di quella ticinese, limitata a meno di due anni, l’emigrazione

poschiavina

nel continente oceanico (circa 400 persone) si mantiene anche nei decenni successivi.

Traduzione e adattamento di Luigi Jorio

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