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Vietnam: la fuga e il ritorno

Il dramma della fuga ha offerto a Phuong Wheeler una nuova vita in Svizzera swissinfo.ch

Ventotto anni fa, Phuong scappava dal paese comunista assieme a migliaia di "boat people". Oggi, cittadina svizzera, vi ritorna per fare affari e riscopre con gioia la sua prima patria.

Phuong, che lavora come consulente finanziaria presso il Credit Suisse a Zurigo, racconta a swissinfo la sua storia. Che pare la trama di un film.

“È cambiato quasi tutto”, dice la minuta donna 42enne guardandosi attorno incuriosita, mentre percorriamo gli stretti viali alberati di Ho Chi Minh City a bordo di un autobus. “Palazzi moderni, luci al neon, molte auto e un fiume di motorette…”.

“In passato, gran parte delle case erano ancora traballanti capanne con i tetti di latta arrugginita. E i bambini di strada vestiti di stracci erano ovunque. Oggi sono molto meno”, nota senza tanta nostalgia.

Quando raggiungiamo il cuore della città, Phuong ha un sussulto. “Qui mi ritrovo! Ecco l’hotel Rex con la sua famosa terrazza, il palazzo del municipio e la rotonda attorno alla quale, da bambini, pedalavamo in attesa di incontrare gli amici. Tutto rinnovato, certo, ma i luoghi sono gli stessi”.

Phuong è tornata in Vietnam per una decina di giorni al seguito di una delegazione economica. Ma il suo coinvolgimento emotivo va ben oltre al mondo degli affari. “Sono felice per la mia gente. È evidente che le cose vanno meglio. Dopo tutto quello che abbiamo passato, è una bella sensazione”.

I piedi delle lanterne

Nel 1975 la riunificazione del paese dopo la sanguinosa guerra con gli USA non significò la fine delle privazioni e dei problemi per la popolazione locale. La povertà era estrema, il cibo scarso e la pace tutt’altro che stabile (nuovi conflitti con Cambogia e Cina).

“A quei tempi volevano andarsene in molti. Le speranze erano fioche ed i timori enormi. A Saigon si diceva che ‘se avessero i piedi, partirebbero pure le lanterne'”, ricorda Phuong.

Siccome il governo “tollera” l’esodo dei cittadini di origine cinese, la famiglia le inventa un nome cinese (“Non me lo ricordo neanche più”, ci dice) e tenta più volte di farla uscire dal paese in compagnia del fratello maggiore.

“Nel 1978, dopo tre anni di fallimenti, ce la facemmo”, dice. “Eravamo nascosti in un luogo appartato con altre 500 persone. I passatori c’invitavano ossessivamente ad essere rapidi e a lasciare tutto il superfluo”.

Nella notte, in silenzio, Phuong sale su una piccola barca che naviga il Mekong verso il mare. Più al largo i fuggitivi sono attesi da un grosso battello che li porta nelle Filippine.

Tanti vestiti e poca gente

Phuong trascorre tre anni sull’arcipelago, tra l’isola di Palawan e la capitale Manila. Nel frattempo l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati trova un accordo con i paesi occidentali che si dicono disposti ad accettare parte degli esuli vietnamiti.

“Nel 1981 ci hanno parlato della possibilità di essere accolti in Svizzera. Un paese che nemmeno conoscevo: sapevo che a Ginevra erano stati firmati degli accordi di pace, ma io, 17enne, pensavo che la città fosse in Francia”.

Sempre in compagnia del fratello, Phuong si fa coraggio e decide di tentare comunque la nuova carta. “Arrivammo credo in marzo. Era freddo e toccammo la neve per la prima volta”.

“Ricordo che all’aeroporto di Zurigo ci vennero offerti mantelli e diversi abiti. Ci dissero di scegliere qualcosa e d’indossarlo. Ero stupefatta: da anni vivevo con un solo vestito di ricambio”, ricorda Phuong. “Ma il nuovo paese appariva disabitato. Per le strade non vedevo nessuno. Dov’era la gente?”.

Una nuova vita

In Svizzera, Phuong studia le lingue, cerca d’integrarsi ed inizia una formazione commerciale. Nel 1998 si sposa ed oggi ha un bambino di 8 anni. Insomma, una storia a lieto fine.

“Mio fratello, che in Vietnam aveva studiato medicina, lavora in uno studio di medicina cinese a Zurigo. Ed io sono impiegata presso il Credit Suisse …da ben 18 anni. Ora mi occupo di consulenza finanziaria nel settore del private banking”.

Guardandosi indietro la socievole donna non prova particolari rancori. “Nelle grandi difficoltà del dopoguerra, i comunisti hanno cercato di portare dell’ordine. È stato un cammino irto di ostacoli anche per loro”.

“Ed io? Fossi rimasta in Vietnam, oggi probabilmente venderei stoffa al mercato come faceva mia madre. Da un lato la fuga mi ha dunque sradicato dal mio mondo. Ma dall’altro, mi ha offerto una nuova vita”, conclude.

swissinfo, Marzio Pescia, Ho Chi Minh City

Gli anni che seguono la presa di Saigon da parte dei comunisti del Vietnam del Nord (1975) e la riunificazione del paese sono caratterizzati dall’esodo di massa di migliaia di ex vietnamiti del sud che fuggono povertà, timori e persecuzioni.

In quindici anni almeno 1.5 milioni di persone tentano di raggiungere le coste di altri paesi del sud-est asiatico a bordo di imbarcazioni di fortuna.

Sfidando il mare, molti di loro raggiungono inizialmente i campi profughi in Malaysia, nelle Filippine, in Thailandia, a Hong Kong e in Indonesia. In seguito, un’ondata di solidarietà internazionale apre loro le porte di gran parte dei paesi occidentali.

In Svizzera vivono circa 7’000 vietnamiti. Circa la metà di loro dispone della cittadinanza elvetica.

Nella maggior parte dei casi si tratta d’immigrati di lunga data. I primi studenti arrivarono a metà degli anni ’60 per proseguire la loro formazione universitaria a Ginevra e Losanna.

Durante il conflitto americano, numerosi bambini furono presi a carico dalle organizzazioni non governative svizzere. Nel 1975, a fine guerra, in Svizzera vivevano circa 1’000 vietnamiti.

Poi venne l’epoca del grande esodo. Tra il 1979 ed il 1984 molti, ritenendosi perseguitati, fuggirono il regime comunista di Hanoi. In quegli anni, più di 6’000 persone raggiunsero la Svizzera.

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