Documenti sull’apartheid sotto chiave
Il governo vuole proteggere le ditte accusate di aver fatto commerci con il Sudafrica della discriminazione razziale, bloccando l'accesso ai documenti per gli avvocati delle cause milionarie.
Negli ultimi tre anni un accesso facilitato aveva cercato di rispondere alle accuse di collaborazionismo con il regime di Pretoria.
Il Consiglio federale ha bloccato giovedì l’accesso ai dossier degli Archivi federali concernenti il Sudafrica del tempo dell’apartheid. Toccati dalla misura sono tutti gli atti che contengono nomi di ditte svizzere e straniere che hanno avuto relazioni d’affari con il regime bianco di Pretoria.
La decisione è legata alle denunce collettive depositate negli Stati Uniti contro queste società. La libera consultazione di questi documenti, come praticata finora, rischierebbe – al momento dell’esame delle denunce – di sfavorire le ditte svizzere prese di mira rispetto a quelle straniere coinvolte nelle citate relazioni, precisa in un comunicato il Dipartimento federale delle finanze (DFF).
Un’eredità difficile
L’economia svizzera è stata accusata per decenni di sostenere il regime dell’apartheid sudafricano. Come paese non membro delle Nazioni unite la Svizzera non ha infatti mai applicato le sanzioni economiche contro il regime bianco. In seguito ad una serie di proteste e mozioni parlamentari, è iniziato alcuni anni fa un processo di analisi storica sul periodo.
Nel maggio del 2000, il Consiglio federale ha incaricato il Fondo nazionale di ricerca di indagare sulle relazioni tra la Svizzera e il Sudafrica. Parallelamente gli uffici dell’amministrazione federale interessati sono stati invitati ad agevolare l’accesso ai dossier in possesso degli Archivi federali.
Mandato limitato
I ricercatori, guidati dal professore basilese Georg Kreis, non hanno però un mandato illimitato come quello ottenuto a suo tempo dalla commissione Bergier che si è occupata dei rapporti con il Terzo Reich. L’accesso è infatti limitato alle fonti pubbliche e non a quelle aziendali.
Vari ricercatori del programma, denominato 42+, come pure studenti e giornalisti, sono stati autorizzati a consultare questi documenti. Ma non esiste un diritto all’accesso alle fonti tanto recenti. La decisione attuale, afferma il governo, prevede comunque una chiusura temporanea, volta a garantire condizioni eque alle ditte chiamate in causa delle denuncie collettive.
Il Consiglio federale tiene a sottolineare che nessun altro governo ha fatto tanto per chiarire il proprio rapporto con il tramontato regime sudafricano.
Limiti alla ricerca contenuti
Il responsabile del progetto di ricerca, Georg Kreis ha espresso a swissinfo il suo stupore: «Sono dispiaciuto di questa scelta del governo che cambia anche le basi per il progetto del Fondo nazionale. Ma d’altra parte posso capire l’azione, perché con le denunce la situazione è cambiata».
Comunque una gran parte del lavoro archivistico è già stato svolto nei mesi scorsi e quindi i ricercatori dispongono già di molte informazioni. La pubblicazione non dovrebbe dunque subire dei ritardi, anche se la completezza dell’immagine proposta potrebbe ancora soffrire. Kreis ricorda inoltre che l’accesso agli archivi privati non è stato concesso. Le sole fonti ufficiali hanno già limitato in origine lo studio. La pubblicazione dei risultati è prevista comunque nei termini, alla fine di quest’anno.
Le reazioni
Il gruppo di analisti critici verso il sistema bancario elvetico, Finanzplatz Schweiz, afferma che con questa decisione il governo trascina «nell’assurdo» il suo sforzo precedente di chiarire i veri legami con il governo di Pretoria. Il gruppo denuncia inoltre l’incapacità o la mancata volontà del parlamento di trovare già nel 2000 una soluzione vincolante dai tratti legali sicuri.
Anche i partiti di governo hanno reagito alla decisione. A destra, UDC e radicali sostengono la decisione. Per i democristiani invece c’è ragione di preoccuparsi che «l’indispensabile lavoro sulla memoria» sia intralciato. Per i socialisti non si vede il nesso tra procedimenti giudiziari e gli impedimenti che contemporaneamente si pongono ai ricercatori, per questo ritengono la misura sproporzionata.
Economiesuisse, l’organizzazione economica del padronato, afferma invece che la decisione del governo «corregge una distorsione che rischiava di sfavorire le ditte svizzere coinvolte».
swissinfo, Daniele Papacella
Le denunce collettive puntano il dito contro imprese americane, tedesche, francesi, britanniche, olandesi e svizzere.
Fra gli accusati – 20 in tutto – figurano le compagnie petrolifere Exxon Mobil e Shell, le case automobilistiche americane Ford e General Motors, il gigante dell’informatica IBM e diverse banche, fra cui Citigroup, Barclays national bank, Deutsche e Dresdner Bank. In Svizzera spuntano i nomi di UBS e del Credit Suisse.
Istituti finanziari e imprese sono in sintesi accusati di aver contribuito, con la concessione di crediti o con la vendita di prodotti, a sostenere il regime segregazionista, che per anni ha sfruttato la popolazione nera e applicato condizioni di lavoro discriminatorie.
Adesso molte vittime ritengono giunto il momento di un risarcimento per i torti subiti e chiedono giustizia ricorrendo ai tribunali americani.
Indipendentemente, il gruppo di studiosi capitanati da Georg Kreis, analizza dal 2000 i rapporti specifici della Svizzera e il regime sudafricano. La Confederazione sostiene gli storici con il Fondo nazionale di ricerca.
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