Ruanda, un esempio da seguire?
25 anni dopo l’indicibile genocidio di cui è stato teatro, il Ruanda oggi brilla per il parlamento con la maggior presenza femminile al mondo. Una delegazione parlamentare dalla Svizzera in visita a Kigali cercherà di far luce sul fenomeno senza farsi abbagliare.
La Svizzera in cattiva compagnia
Il mondo intero – quindi anche la Svizzera – ha chiuso gli occhi quando 25 anni fa si è avuta l’inconfutabile certezza di un nuovo genocidio dopo l’olocausto. Eppure i segnali che il piccolo Paese dell’Africa orientale fosse diretto verso un massacro di massa erano evidenti da tempo. Gli esperti in materia non concordano soltanto sul fatto che il conflitto era prevedibile, bensì pure che avrebbe potuto essere evitato o quantomeno ridimensionato se si fosse intervenuti tempestivamente.
Un primo allarme era stato lanciato nel 1992 dall’ambasciatore belga a Kigali, il quale ribadiva che un gruppo di Hutu stava pianificando “lo sterminio dei Tutsi in Ruanda”. Nel marzo del 1993 quattro importanti organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo avevano denunciato le carneficine in Ruanda. E nell’agosto del 1993 il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali informava la Commissione dell’ONU per i diritti umani che tali uccisioni di massa dovevano essere ritenute un “genocidio”.
Non sono quindi stati i mezzi o le informazioni a mancare, bensì la volontà politica perlomeno di arginare il genocidio.
Anche la Svizzera, che nel 1963 ha inserito il Ruanda nell’elenco dei paesi prioritari per la cooperazione allo sviluppo, appena creata, aveva sminuito i precedenti massacri e le avvisaglie del genocidio del 1994. In seguito è stata accusata di aver protetto gli autori, condannati o presunti, del massacro. Un controverso rapporto commissionato dal Dipartimento degli affari esteri è giunto alla conclusione nel 1996 che la Svizzera non avrebbe potuto prevedere la catastrofe; avrebbe invece dovuto reagire con “maggior determinazione” ai “problemi di natura etnica”.
Il 7 aprile la presidente del Consiglio nazionale Marina Carobbio si recherà a Kigali. Sollecitata da parte nostra, la “prima cittadina” scrive: “Partecipando alla Giornata mondiale di riflessione sul genocidio di 25 anni fa, la delegazione svizzera vuole esprime la propria solidarietà”.
A quanto pare, la collega in carica nel Paese africano intravvede anche del potenziale a livello diplomatico: in base a un comunicato diramato dal Parlamento ruandese, durante un incontro preparatorio con l’ambasciatore di Svizzera, Mukabalisa Donatille avrebbe espresso la necessità di migliorare le relazioni bilaterali tra i due Paesi.
La dichiarazione lascia presupporre che Kigali non abbia ancora concluso l’elaborazione del ruolo nebuloso giocato dalla Svizzera prima e dopo il periodo del terrore.
La politica di genere ruandese come fonte d’ispirazione?
Per anni il Ruanda è stato associato quasi soltanto al genocidio che ne ha segnato la storia. Nel giro di 100 giorni frange estremiste della maggioranza Hutu trucidarono oltre 800 000 persone, circa il 70 per cento della minoranza Tutsi, ma anche molti membri di etnia Twa e Hutu che non avevano preso parte agli omicidi di massa.
Dal 2008 il Ruanda è salito agli onori della cronaca anche per un record mondiale di tutto rispetto, ricordato dalla presidente del Consiglio nazionale Marina Carobbio: “Il 61 per cento dei parlamentari sono di sesso femminile. Parto quindi dal presupposto che ai colloqui parteciperanno numerose donne.”
Carobbio non vuole tuttavia rivelare se la delegazione parlamentare svizzera si rechi a Kigali anche per trarre ispirazione dalla politica di genere applicata dal Ruanda, rimandando un giudizio a dopo la visita. A titolo di paragone, sulla lista dei parlamenti nazionali con la maggior quota di donne, con il 32,5 per cento la Svizzera si colloca soltanto al 37° rango.
Nessun incontro con le forze dell’opposizione
Va da sé che nel “Paese del miracolo femminile” la delegazione parlamentare partita da Berna non dovrà certo cimentarsi con dettagli significativi come la palese inosservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà democratiche. Nessun incontro neppure con l’opposizione, i cui membri sono impegnati giorno dopo giorno a sfuggire alle rappresaglie e a rimanere in vita.
I parlamentari svizzeri avranno forse un patinato scambio di vedute con la presidente di “Pro-Femmes / Twese Hamwe”. Jeanne D’Arc Kanakuze è stata cofondatrice nel 1992 dell’organizzazione mantello che oggi raggruppa 53 diverse associazioni femminili.
Dopo che il Fronte Patriottico Ruandese (RPF) – sotto la guida dell’attuale presidente Paul Kagame – era intervenuto con l’esercito per porre fine al genocidio, “Pro Femmes” è stata incaricata di ricucire gli strappi all’interno della società. “Nei primi anni dopo il genocidio i due terzi dei sopravvissuti erano donne”, afferma Kanakuze a Kigali. “Non solo per noi, ma anche per il Governo e in fondo per tutti i sopravvissuti, era chiaro che avremmo dovuto superare ogni genere di discriminazione.”
In effetti: la costituzione del 2003 vieta ogni genere di discriminazione, termini come “Hutu” o “Tutsi” sono tabu, l’omosessualità è legale (un fatto eccezionale per l’Africa orientale) e per le donne è stata fissata una quota del 30 per cento in “tutti gli organi decisionali”.
Ma che valore può avere l’avanzata delle donne se il processo di democratizzazione arranca? Kanakuze, Presidente di Pro-Femmes, dichiara: “La gente ha optato per questo sistema. Vogliono pace, sicurezza e sviluppo ed è proprio quello che diamo loro.”
Dall’esilio alla segregazione in cella
Intenzionata a prendere in mano le redini del Paese, nel 2010 Victoire Ingabire è rientrata dal suo pluriennale esilio nei Paesi Bassi. Dopo aver toccato suolo ruandese è stata incarcerata e isolata dagli altri detenuti. Lo scorso mese di settembre, poco dopo le recenti elezioni parlamentari, il presidente Kagame le ha concesso la grazia.
L’assistente personale di Ingabire organizza un incontro privato nella sua abitazione, nelle immediata vicinanze del Parlamento. “Sapevo di tornare in uno stato di polizia; potevo immaginare che mi sarebbe successo qualcosa “, afferma Ingabire dal suo divano. “Ma volevo finalmente fare qualcosa di concreto per il mio Paese.”
Ritrovata la libertà, Ingabire era piena di speranze. “Ero convinta che la scena politica si sarebbe aperta e che avrei potuto candidarmi per le presidenziali.”
Speranze che si sono vanificate nel giro di poche settimane, nel momento in cui dal penitenziario di massima sicurezza è sparito senza lasciare traccia il vicepresidente del suo partito, le Forze democratiche unificate. Secondo la versione ufficiale sarebbe evaso, ma molto probabilmente è stato assassinato.
Ingabire critica il Governo anche per l’elaborazione del genocidio. “È fuori discussione che il RPF ha messo fine al genocidio e portato avanti il processo di riconciliazione”, afferma la 50enne con origini Hutu. “Ma se riconosce soltanto le vittime Tutsi negando gli omicidi per vendetta dalle proprie fila, come si può parlare di riconciliazione?”
L’opposizione cerca alleati tra i Paesi partner
Pochi giorni dopo il colloquio l’assistente personale di Ingabire viene rinvenuto privo di vita. Sarebbe morto per strangolamento; un metodo noto in Ruanda per far sparire i dissidenti, come conferma un comunicato stampa diramato dalle Forze democratiche unificate. L’alleanza politica esorta ora i Paesi partner e i finanziatori a fare finalmente pressione sul Governo affinché il Ruanda non “ripiombi ancora una volta negli inferi”.
Questo il siparietto cui assisterà la delegazione parlamentare svizzera il prossimo 7 aprile.
L‘autore ha ottenuto un sostegno finanziario dal Fondo di ricerca della “Wochenzeitung” (WOZ). Una versione più estesa del reportage è stata pubblicata qCollegamento esternoui.
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