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La Merica, da Genova a Ellis Island

Galata Museo, Genova

È il titolo della mostra che il Museo Galata di Genova dedica all'emigrazione italiana nel periodo compreso tra l'Unità d'Italia e la Seconda Guerra Mondiale. Genova è la porta di ingresso dell'America per molti dei 29 milioni di italiani.

Fotografie, documenti, lettere, oggetti, voci, rumori e pianti vi portano alle camerate dove, grazie alla tecnologia, basta sedersi su una cuccetta per “incontrare” il racconto di un vicino di branda. Ma nella vicenda dell’emigrazione è il momento dell’imbarco e della partenza l’ora più drammatica.

Si tagliano i legami con la propria terra e i propri affetti, si lasciano poche misere certezze, dopo aver atteso – all’addiaccio e magari per giorni – l’arrivo del proprio battello che porterà in quella terra promessa che molti non vedranno mai.

Arrivati a Genova uomini e donne si confrontano con la realtà di una città che, in pieno sviluppo industriale, vive sull’emigrante. Eppure lo disprezza, lo giudica severamente, lo considera un peso e un problema sociale.

Alla fine del XIX secolo, Genova è la grande porta d’addio per molti dei 29 milioni di italiani che lasciano il paese nel periodo compreso tra l’Unità d’Italia e la Seconda Guerra Mondiale: 3 milioni di loro passeranno ad Ellis Island, isola-frontiera con vista sul sogno americano.

L’emigrante “merce preziosa”

Nella mostra “La Merica – Da Genova a Ellis Island” (prolungata fino al 30 settembre 2009) il centro emozionale è la grande scena dell’imbarco, con la ricostruzione della Stazione Marittima, del Molo e la fiancata del piroscafo “Città di Torino” ricostruita nei minimi dettagli a grandezza naturale, sulla scorta dei disegni originali conservati dal museo.

All’ingresso una pigna di passaporti, divisi per sesso; ad ogni visitatore viene distribuito un documento di viaggio. Si calerà nei panni di chi, uomo o donna, questo grande viaggio della povertà l’ha vissuto davvero. Scoprirà l’identità dell’emigrante, e il suo destino, lungo il percorso della mostra che combina in modo straordinario diversi livelli: storico, politico, emotivo, umano. Sì, è una mostra che coinvolge.

Così io rivivo il destino di Anna Schiacchitano, siciliana, di Agrigento, che si imbarca con i figli Paolo, Maria e Domenico per raggiungere il marito in America. Anna ha 38 anni, è sciupata, povera, stanca e analfabeta. Che importa? A Genova è sola con i figli, ma ad attenderla c’è La Merica e il marito, partito prima per cercare lavoro.

Genova, secondo il curatore della mostra Pierangelo Campodonico, non è un “luogo qualunque dell’emigrazione italiana: è la porta attraverso la quale passano buona parte degli oltre 29 milioni di italiani che partono per l’emigrazione. Genova viene individuata come uno scalo importante da compagnie diverse, anche straniere. L’emigrante è una merce preziosa e gli armatori lottano a coltello per accaparrarseli e riempire le navi”.

Ma il viaggio non finisce a terra

Il viaggio, tredici giorni in nave attraverso l’oceano, è un’avventura estenuante, a tratti terrificante. Le condizioni sono penose, le persone sono stipate come sardine. Vomitano, si ammalano, soffrono. Condividere gli spazi esigui è un obbligo, sopravvivere è un regalo del destino.

Salita a bordo, cerco la cuccetta nelle grandi camere comuni divise per sesso. Scopro i bagni, il refettorio, la sala medica, ma anche la prigione – dove venivano rinchiusi i violenti e i clandestini – e l’Ufficio del Commissario di bordo.

Dagli oblò e dalle finestrature è possibile vedere il mare, in diverse condizioni di luce, di giorno, al tramonto e durante una notte di luna. Fisso l’oblò e davanti agli occhi vedo scorrere il mare, veloce, impetuoso. Ecco un’onda, e poi un’altra. E un’altra ancora. La sensazione è di essere realmente a bordo di una nave, ma con piedi sulla terra ferma.

La nave prosegue, passa sotto la Statua della Libertà. È il momento della commozione, ma non è la fine del viaggio. Tutt’altro. Il visitatore, da emigrante, sbarca a Ellis Island, l’isola a due miglia da New York. Io, Anna Schiaccitano, stanca, provata, con Domenico in braccio, cerco con affanno i bagagli. Li cerco, ma non li trovo. Perduti? Rubati? Scambiati? Che importa. Non ho più nulla.

Una volta a terra l’emigrante entra nella “Inspection Line”, una tappa di visite mediche, interrogatori e test medici per verificare le condizioni di salute e per determinare se ha i requisiti per essere accolto in America. Quella dell’emigrante è una storia, fatta di attese, domande, visite, sospetti, verifiche.

La mostra illustra la sorte che spetta a chi non era in regola, era malato o comunque ritenuto non idoneo a entrare negli Stati Uniti. Porte chiuse a chi non aveva soldi e a chi si dichiarava apertamente anarchico. L’ultima scena, infine, apre le porte del Nuovo Mondo o, più esattamente, la città di New York dove la gran parte degli emigranti giunti dall’Europa si fermava alle prese con i problemi concreti e quotidiani: trovare un lavoro, una casa, curare la salute e sopravvivere.

Il senso della memoria civile

L’allestimento della mostra punta volutamente a coinvolgere il pubblico emotivamente, ma nel contempo propone un percorso ricco di informazioni. Grazie a una ricca documentazione politica, amministrativa e giornalistica e alle postazioni multimediali, la ricostruzione del fenomeno migratorio è avvincente.

Molti dei documenti raccolti sono stati registrati a voce e in video e costituiscono l’inedita e stradinaria colonna sonora della mostra, fatta da musiche dell’emigrazione, ma anche e soprattutto da dialoghi, monologhi, testi di lettere.

Questa mostra “diversa” esula dal tradizionale percorso artistico o documentario di uno dei grandi temi del Novecento. Perché è soprattutto, come sottolinea Maria Paola Profumo, presidente del Museo del Mare (Mu.Ma) “un percorso emozionale, segnato dall’ansia e dalla speranza”.

“Perché la storia dell’emigrazione – continua la presidente – è una storia di uomini e donne, di persone, di sentimenti. E gli stessi sentimenti che furono dei nostri padri, sono oggi quelli di tanti emigranti tra noi, non dobbiamo scordarlo. È questo il senso di una memoria civile”.

swissinfo, Françoise Gehring, Genova

L’America è stata terra di emigrazione anche per molti svizzeri.

Tra il 1850 e il 1939 sono quasi 300’000 le persone a imbarcarsi per gli Stati Uniti.

Molti dei 27’000 migranti dal Ticino s’installano nella regione di San Francisco, lungo le catene costiere e nelle valli centrali della California.

Iniziano a lavorare come mungitori di mucche, rancieri o viticoltori, spesso nelle proprietà appartenenti agli emigranti svizzeri italiani che li hanno preceduti.

Diversi emigranti guadagnano abbastanza per acquistare un ranch e inviare in patria cospicui capitali a sostegno delle famiglie.

Sul continente nascono numerose colonie elvetiche che portano il nome del luogo d’origine. Si trovano così Grütli nel Nebraska, Helvetia e Alpina nel Kentucky e Tell City nell’Indiana, senza contare le molte Bern e Lucerne sparse sul territorio.

La rete internazionale dell’istituzioni delle migrazioni è costituita da musei e istituzioni che si occupano di promuovere la conoscenza delle problematiche relative alle migrazioni.

Seguendo l’esempio degli Stati Uniti (con il museo di Ellis Island), l’Australia, il Canada e, più di recente, di alcuni paesi europei (Francia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svizzera e Regno Unito), sono stati creati questi luoghi per facilitare la trasmissione tra generazioni e l’incontro tra migranti e popolazioni ospitanti.

Gli scopi:

Conoscenza: conoscere il contributo dei migranti alle società che li ospitano; la diversità e la ricchezza delle culture d’origine; il diritto alla doppia appartenenza.

Integrazione: favorire l’integrazione, incentivare il senso d’appartenenza; rendere le comunità migranti parte del paese in cui vivono.

Consapevolezza: costruire la consapevolezza riguardo agli eventi che hanno indotto uomini e donne a lasciare la propria terra; sviluppare l’empatia e decostruire gli stereotipi sull’immigrazione.

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