Chi è il cannibale?
Il Museo d'etnografia di Neuchâtel s'interroga su se stesso e sul lavoro dell'etnologo. Con una mostra intitolata "Il museo cannibale".
Dal 1850 in poi, gli etnologi contribuirono a saccheggiare interi paesi, portando in Europa migliaia di oggetti. Oggetti che furono selezionati, etichettati, analizzati ed esposti nei musei con criteri tanto soggettivi quanto eurocentrici.
Solo dopo il 1960 e la decolonizzazione, cominciò a sorgere il dubbio sul senso di queste operazioni pseudoscientifiche. Fra gli etnologi si fece strada negli anni Ottanta la consapevolezza che una società poteva essere analizzata senza collezionarne le produzioni materiali. Ma che farsene, allora, degli artefatti stipati nei musei?
È questa la domanda a cui cerca di rispondere, in maniera provocatoria, Jacques Hainard, curatore del Museo d’etnografia di Neuchâtel, adottando a metafora del lavoro degli etnologi un soggetto caro proprio all’etnologia del presente: il cannibale.
Tra etnologia ed estetica
“Il museo cannibale” vive di una messa in scena sontuosa, curata dalla scenografa Sabine Crausaz. Un’attenzione per l’aspetto estetico che avvicina la mostra ad un’installazione d’arte contemporanea. Una contraddizione con l’intento critico della mostra? Non per Jacques Hainard: “L’estetica è importante, ma è necessario che tutto abbia il suo significato. La luce, la scena, tutto partecipa a costruire il discorso. E se il discorso regge, l’estetica serve.”
L’esposizione è articolata in otto sezioni. All’inizio un gigantesco muro costruito con oggetti museali emerge dall’oscurità. Un muro che si chiama, significativamente, “L’imbarazzo della scelta”. Seguono sezioni che ripercorrono le tappe di un oggetto etnologico, “L’appetito vien classificando”, “Il gusto degli altri”, “La camera fredda”, “La scatola nera”, dove non mancano frecciate ai guru della messa in scena artistico-etnografica: “Giustapposizione à la Jean Clair”, “Estetizzazione à la Barbier-Müller”, “Associazione à la Harald Szeeman”.
Si passa quindi ad una sontuosa sala da pranzo, dove i possibili approcci museali sono rappresentati in forma di banchetti e alla siesta in un rassicurante (?) bozzolo di vetro. Per finire nella sezione dal titolo “Il cannibale sei tu”, in cui un’interpretazione sanguinolenta dell’Ultima cena ricorda che alla base della cultura cristiana vi è un atto simbolico di antropofagia.
“Bisogna colpire duro, per far capire alla gente che non ci si può accontentare delle buone intenzioni”, dice Jacques Hainard. “Bisogna passare all’azione e dunque dire le cose. Io soffro per tutti quelli che non osano dire, che occultano.”
L’etnologia come specchio
Con “Il museo cannibale”, l’etnologia non parla più dell’altro, ma di se stessa. “È la direzione che vorrei fa imboccare al museo”, ammette Hainard, “verso un’antropologia di sé.”
“Noi fabbrichiamo un discorso sul mondo e sugli altri. Ma se riuscissimo a capire perché pensiamo come pensiamo, perché e come costruiamo degli stereotipi, saremmo in grado di posizionarci verso altri saperi, verso altri discorsi.”
swissinfo
“Il museo cannibale” rimarrà aperto fino al 2 marzo 2003
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