Dalla provetta la soluzione alle maree nere
L'Università di Losanna coordina un progetto europeo che propone nuove strategie di lotta contro le chiazze di petrolio. Per il bene di migliaia di specie marine.
Con batteri in grado di riconoscere e segnalare la presenza di idrocarburi negli oceani, i ricercatori dell’ateneo vodese intendono contribuire alla gestione dei disastri ambientali.
La petroliera Prestige al largo delle coste spagnole della Galizia nel 2002: 68’000 tonnellate di greggio disperse nel mare. La Haven nel Golfo di Genova nel 1991: 140’000 tonnellate. O ancora, la Exxon Valdez nelle acque che bagnano l’Alaska nel 1989: 37’000 tonnellate.
La storia della navigazione commerciale è (purtroppo) ricca di incidenti occorsi a navi cisterne. Il petrolio disperso in mare ha causato danni a migliaia di specie di uccelli, mammiferi e rettili acquatici, oltre a distruggere interi ecosistemi sulle coste.
Lotta alle maree nere
Sebbene impressionanti, le cifre relative alla quantità di petrolio fuoriuscita dal ventre di imbarcazioni spezzate rappresentano tuttavia soltanto una piccola parte (8%) dell’inquinamento «nero» totale.
Se poco si può fare per evitare il riversarsi in mare di idrocarburi – dovuto perlopiù ad infiltrazioni naturali e ad attività umane – si può perlomeno sperare di intervenire per gestire gli effetti nocivi sui sistemi marini.
Ne è convinto un gruppo di ricercatori dell’Università di Losanna, che nel quadro del progetto europeo FACEiT («Fast Advanced Cellular and Ecosystems Information Technologies»), ha deciso di combattere le maree nere con gli strumenti della biotecnologia.
«L’idea è di sviluppare dei metodi che permettano di misurare rapidamente gli effetti biologici sulle specie acquatiche», spiega a swissinfo Jan Roelof van der Meer, responsabile del progetto a Losanna.
Biblioteca batterica
Muovendosi in una direzione relativamente nuova, intrapresa finora soltanto da una manciata di istituti di ricerca, l’equipe dell’ateneo vodese ha scelto di armarsi di microscopi e pipette per concentrarsi sull’infinitamente piccolo. «Vogliamo utilizzare i batteri per poter individuare rapidamente un dato inquinante (nel nostro caso il petrolio) e determinarne la concentrazione», indica van der Meer.
«Per fare ciò incorporiamo, nel patrimonio genetico dei batteri, una proteina fluorescente o luminescente che si attiva al momento del contatto con il prodotto ricercato». E più elevata è la quantità di petrolio presente nell’acqua, maggiore sarà l’intensità del segnale luminoso.
Considerando che ogni batterio ha una preferenza specifica per questa o quella sostanza (la composizione del petrolio varia in base al rapporto dei principali costituenti), l’obiettivo di van der Meer e dei suoi collaboratori è di mettere a punto una sorta di «biblioteca batterica», pronta all’uso in qualsiasi situazione.
Niente Ogm nel mare
Sistemi marini, batteri, patrimonio genetico, proteine fluorescenti… qualcuno potrebbe anche cominciare a storcere il naso: vuoi vedere che gli oceani del pianeta saranno invasi da un’armata di organismi geneticamente modificati (Ogm) affamati di petrolio?
«Sicuramente no!», risponde van der Meer. «Le analisi saranno effettuate in laboratorio o comunque in sistemi chiusi».
Una volta terminata la messa a punto della tecnica, il microbiologo dovrà affrontare un’altra sfida: convincere gli altri professionisti del ramo (centri di ricerca, laboratori, istituti) a distaccarsi dalle regole ufficiali che prediligono l’analisi chimica, per abbracciare invece quella biologica.
Un approccio diverso che in altri campi ha già dimostrato la sua efficacia. Nel settore agroalimentare – rammenta il ricercatore – sono impiegati dei batteri per individuare, nel riso, tracce di arsenico, un elemento altrimenti difficile da evidenziare chimicamente.
Batteri mangia petrolio
I batteri permetteranno non solo di individuare sostanze nocive e di prevederne gli effetti, ma anche di intervenire per dare una mano a Madre natura a ritrovare i suoi equilibri.
Altri gruppi di ricerca del progetto FACEit – che vede l’equipe losannese coordinare il lavoro di 12 partner in tutta Europa – si concentrano infatti sulla capacità di certi microrganismi di distruggere gli idrocarburi nel mare.
Questi batteri – afferma Jan Roelof van der Meer – esistono già nell’ambiente: si tratta di stimolarli e accelerare il processo naturale di degradazione del petrolio.
Altre ricerche mirano invece a prevedere e a valutare in tempi rapidi gli effetti dell’inquinamento su organismi marini più complessi (pesci, crostacei e mammiferi).
swissinfo, Luigi Jorio
Si stima che ogni anno finiscano in mare circa 1,5 milioni tonnellate di petrolio.
La maggior parte di questo inquinamento proviene da fonti croniche, quali la ricaduta di particelle inquinanti dall’atmosfera, le infiltrazioni naturali, le perdite di raffinerie e di piattaforme in mare aperto e lo scarico di acque di zavorra da parte di navi cisterna.
Meno del 10% è invece da ricondurre a riversamenti accidentali.
I costi legati ad un incidente di una petroliera possono ammontare a diversi miliardi: per ripulire la zona dopo il disastro provocato dalla Exxon Valdez (Alaska, 1989) sono ad esempio stati spesi 2,5 miliardi di dollari.
Il progetto FACEit coinvolge 12 gruppi di ricercatori in tutta Europa.
Tra questi, un gruppo di ricercatori dell’Università di Losanna.
Iniziato nel settembre 2005, dovrebbe concludersi nel mese di marzo del 2009.
Il suo budget è di 3,7 milioni di euro (5,8 milioni di franchi).
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