Sangue e sudore per conquistare la “Vergine”
Un secolo dopo l'inaugurazione, la ferrovia della Jungfrau resta un'opera strabiliante. Per produrre questo prodigio morirono, si ferirono e soffrirono molti lavoratori, in prevalenza italiani, ricorda Peter Krebs, coautore del libro ufficiale per il centenario della più alta ferrovia d'Europa.
Oggi la bellezza di questo capolavoro toglie il respiro e strappa grida entusiaste alle centinaia di migliaia di passeggeri provenienti da ogni angolo del mondo che ogni anno, comodamente seduti, viaggiano nelle viscere delle mitiche Alpi bernesi. Allora quell’opera pionieristica tolse la vita e strappò grida di dolore a tanti operai che con pala, piccone e dinamite scavarono la roccia, lavorando giorno e notte a turni di otto ore.
Pensando a loro, Peter Krebs conclude l’articolo sulla storia della costruzione della ferrovia della Jungfrau, nel libro per il centenario, con una constatazione amara. Al capolinea, alla stazione dello Jungfraujoch, situata a 3’454 metri di altitudine, una targa commemorativa rende omaggio al “padre” di quest’opera, l’imprenditore zurighese Adolf Guyer-Zeller, mentre tante persone che permisero la realizzazione della sua idea, invece, sono finite nell’oblio.
Quegli eroi dimenticati erano operai che lavoravano e alloggiavano in condizioni “oggi inimmaginabili”, spiega l’autore a swissinfo.ch. Quanti fossero esattamente non è noto. “Ma certamente, durante i 16 anni dell’opera, in totale furono più di mille”, dice Krebs, ricordando che ci furono molti cambiamenti di manodopera. Il loro numero oscillava fortemente a seconda dei periodi. “Al massimo lavoravano circa 300 operai contemporaneamente”.
Come negli altri trafori alpini di quel tempo, la maggior parte erano italiani, essenzialmente lombardi e piemontesi. Peter Krebs stima che costituissero circa l’80%. “Quando si parlava degli operai si diceva ‘gli italiani’. Ciò indica che erano talmente maggioritari da diventare sinonimo della totalità degli operai”.
Gli italiani erano assunti “quasi esclusivamente come minatori e manovali per rimuovere i detriti”. Erano soprattutto uomini “che avevano la reputazione di essere robusti, sani e di poche pretese. Sopportavano bene il calore soffocante che c’era all’interno delle gallerie”.
Inoltre “si accontentavano di salari relativamente bassi. Un minatore guadagnava franchi 6.60 al giorno, un manovale 6.20, a un’epoca in cui il pane costava 35 centesimi al chilo. Da questi salari venivano poi dedotti un paio di franchi per il vitto”, rileva Peter Krebs.
Temperature estreme e isolamento…in un “porcile”
Lo specialista di storia ferroviaria svizzera riconosce che rispetto ad altri trafori questi salari erano leggermente più elevati. “Ma le condizioni di lavoro alla Jungfrau erano molto più dure. Era il primo tunnel scavato nella roccia in alta montagna. E all’interno della montagna, più si sale di altitudine, più sale la temperatura”.
All’interno delle gallerie si lavorava con un caldo infernale e una ventilazione insufficiente. Fuori c’era il problema contrario: le temperature erano molto rigide. I lavoratori della ferrovia della Jungfrau restavano per mesi completamente isolati dal resto del mondo, in preda alla neve, al ghiaccio e ai venti violenti. “In autunno si doveva portare sul cantiere tutto il materiale e tutti i viveri per l’inverno”.
Le baracche in cui alloggiavano “spesso erano mal riscaldate. Al loro interno in inverno la temperatura scendeva facilmente fino a 7 gradi”, indica Krebs. “Nei primi mesi dei lavori gli operai furono persino alloggiati in una tenda”. Era la fine dell’estate “ma faceva freddo”.
Negli alloggi regnava “veramente la miseria nera”. Nel corso di un’ispezione, nel 1901, la società ferroviaria della Jungfrau constatò che “i letti erano in un pessimo stato e in numero insufficiente: c’erano fino a tre operai che dovevano condividere un letto”, racconta Peter Krebs.
Le condizioni igieniche erano deplorevoli. Nel rapporto, l’ispettore scrisse che per difendersi dalle pulci e dalle cimici, gli operai spalmavano dinamite sulle coperte. E definì i dormitori come un “porcile”.
“In seguito a quell’ispezione fu costruita una nuova baracca e le condizioni migliorarono leggermente”, precisa Krebs, aggiungendo che qualche anno dopo fu costruita anche “una seconda centrale idraulica che permise di far funzionare il riscaldamento tutto l’inverno”.
La tecnologia pionieristica miete vittime
Un’altra caratteristica del cantiere pionieristico della Jungfrau fu la corrente ad alta tensione. Questa fu portata in galleria per alimentare le perforatrici. “La mancanza di dimestichezza e l’assenza di misure di sicurezza adeguate, furono all’origine di incidenti. Diversi operai restarono fulminati”, indica l’esperto.
Altri problemi e incidenti vennero dalla “mancanza di esperienza nella perforazione in alta montagna, dove ci sono problemi specifici da risolvere, e dalla grande ripidità della galleria”, osserva Peter Krebs.
Anche i pericoli legati all’uso della dinamite si acuirono. Per esempio, quando gelava era inutilizzabile. Perciò, per poterla adoperare, gli operai la riscaldavano. Anche qui non mancavano gli incidenti.
Tutto ciò portò a un pesante bilancio umano: 30 morti, di cui 29 italiani, una novantina di feriti gravi, e sicuramente tanti altri infortunati e malati sui quali non ci sono informazioni. E chi non era più in grado di lavorare doveva tornarsene a casa.
Sacrifici immani mai glorificati
Naturalmente all’epoca non c’erano assicurazioni. “Si sa che degli infortunati gravi che non potevano più lavorare ricevettero piccoli indennizzi. Così come le vedove delle vittime. Ma erano alla mercé dell’impresa. Tali questioni erano regolate singolarmente, caso per caso”.
Se tutti i dati precisi sugli incidenti non si conoscono, una cosa è però certa: furono superiori alla media, così come, proporzionalmente al numero di operai impiegati, il bilancio di morti e feriti fu più elevato che negli altri grandi cantieri ferroviari dell’epoca, rileva Peter Krebs.
Senza il sacrificio di quei lavoratori oggi non si celebrerebbe il centesimo anniversario dell’inaugurazione, il 1° agosto 1912, di quella che allora fu la linea ferroviaria più alta del mondo e che tuttora detiene il record europeo. Eppure, all’ora dei festeggiamenti i loro nomi restano avvolti dalle tenebre. La stessa oscurità in cui dovettero lavorare.
Appassionato di progetti ferroviari, durante una passeggiata con la figlia nelle Alpi bernesi, nel 1893, l’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller decide di costruire una ferrovia a cremagliera elettrica per la Jungfrau.
Il 21 dicembre 1894 ottiene dal governo federale la concessione per la realizzazione del progetto. Il primo colpo di piccone viene dato il 27 luglio 1896.
Nel 1898 è inaugurata la stazione dell’Eigergletscher.
Il 3 aprile 1899 Adolf Guyer-Zeller muore improvvisamente di polmonite. Gli eredi proseguono l’avventura.
Nel 1903 è inaugurata la stazione dell’Eigerwand e nel 1905 quella dell’Eismeer.
L’ultimo diaframma del tunnel cade il 21 febbraio 1912. La stazione dello Jungfraujoch è inaugurata il 1° agosto 1912.
L’ultimo tratto progettato da Adolf Guyer-Zeller, che avrebbe dovuto raggiungere la cima della Jungfrau, invece, resta un sogno.
I lavori sono durati 16 anni, invece dei 7 previsti, e i costi sono ammontati a 16 milioni di franchi, contro gli 8 preventivati inizialmente.
La linea ferroviaria parte dalla Kleine Scheidegg. Dopo 9,3 chilometri, di cui 7,1 chilometri in galleria all’interno dell’Eiger e del Mönch, e 1400 metri di dislivello raggiunge la stazione finale dello Junfraujoch, a quota 3’454 metri.
Nel corso dei 16 anni dei lavori sul cantiere della Jungfraubahn in totale vi furono 6 scioperi, per rivendicazioni di vario tipo. “Si trattava di piccole agitazioni che duravano poco. Non tutti vi aderivano. Era difficile organizzare uno sciopero in un mondo più o meno chiuso, in cui non c’era aiuto esterno. Di solito la società ferroviaria isolava rapidamente gli agitatori”, indica Peter Krebs.
Il primo sciopero ebbe luogo nel 1899: gli operai si rivoltarono perché la società Jungfraubahn aveva imposto il riposo domenicale. “Gli operai non ne volevano sapere perché se non lavoravano non guadagnavano nulla. Preferivano perciò lavorare la domenica e guadagnare qualcosa perché ne avevano bisogno”, spiega Krebs. La rivendicazione operaia fu rapidamente soddisfatta.
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